La storia del terzo governo Andreotti, citato da Napolitano e auspicato dal PD, che restò in carica due anni senza avere la maggioranza in Parlamento
Lunedì 8 aprile il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha citato durante una commemorazione il governo italiano che si formò nel 1976, dicendo: «ci volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà». Molti hanno colto un riferimento all’attuale crisi politica e alla necessità di trovare un ampio accordo tra i partiti per la formazione di un governo. Il riferimento è alla nascita del terzo governo Andreotti, nell’estate del 1976, citato più volte in queste settimane anche da vari esponenti del PD che auspicano la formazione – sulle stesse premesse – di un governo guidato da Pier Luigi Bersani.
Cosa successe nel 1976
Il 1976 cominciò in Italia con una crisi politica: il presidente del Consiglio Aldo Moro aveva dimostrato, nel governo che presiedeva dal novembre 1974, di essere disponibile a un’apertura nei confronti del Partito Comunista Italiano (PCI) allora guidato da Enrico Berlinguer. Il Partito Socialista, che sosteneva Moro, era in forte disaccordo con questa linea e decise infine di ritirare il suo sostegno al governo, che si dimise il 7 gennaio 1976.
Un mese dopo la Democrazia Cristiana formò un nuovo governo, questa volta solamente con ministri della DC: il presidente del Consiglio, per la quinta volta, fu ancora Aldo Moro. In quei giorni, però, la Democrazia Cristiana dovette affrontare anche due scandali, oltre alla difficile situazione politica. Il primo a gennaio, quando sui giornali americani vennero fuori notizie di presunti finanziamenti degli Stati Uniti a esponenti democristiani di primo piano come Andreotti e Donat Cattin. Il secondo, che ebbe molto più risalto, fu il cosiddetto “scandalo Lockheed”, con l’accusa ad alcuni politici italiani di aver ricevuto tangenti per acquistare alcuni aerei da trasporto militari. Il caso arrivò a coinvolgere il presidente della Repubblica Giovanni Leone e l’ex presidente del Consiglio Mariano Rumor: sotto pressione crescente, il governo Moro si dimise e il presidente della Repubblica sciolse in anticipo le Camere.
Nel frattempo la situazione economica italiana era in costante peggioramento. Nel 1975 appena concluso l’inflazione era stata dell’11 per cento e non accennava a calare. A causa della svalutazione, le banche iniziarono a emettere i cosiddetti “miniassegni”, una sorta di cartamoneta sostitutiva degli spiccioli che durò per diversi mesi. L’economia, dopo la crisi petrolifera che aveva investito tutto l’Occidente, era in una situazione pessima: nel 1975 il Prodotto Interno Lordo si ridusse del 2,1 per cento.
Si arrivò quindi alla campagna elettorale del 1976 con la sensazione diffusa che il Partito Comunista Italiano (PCI) potesse per la prima volta portare a termine uno storico “sorpasso” sulla Democrazia Cristiana, ovvero ottenere più voti. Le “prove generali” del sorpasso erano state le elezioni amministrative del 15-16 giugno 1975, circa un anno prima: alle amministrative e alle regionali il PCI aveva ottenuto un ottimo risultato con il 33 per cento dei voti, a soli tre punti percentuali dalla Democrazia Cristiana. Il PCI, dopo quelle elezioni, governava cinque regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Piemonte e Liguria) e le prime cinque città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova). In totale, sommando a quelli del partito comunista i voti del Partito Socialista Italiano (12 per cento) e di alcuni partitini dell’estrema sinistra, il centrosinistra italiano era arrivato vicino al 47 per cento dei voti.
La Democrazia Cristiana aveva accusato il colpo: Amintore Fanfani aveva lasciato la segreteria (gli successe Benigno Zaccagnini) ma il partito di governo sembrava in quel periodo sempre più ostaggio delle lotte tra correnti. Lo scarso entusiasmo per la Democrazia Cristiana paralizzata da scandali e divisioni interne venne riassunto dal celebre giornalista Indro Montanelli, allora direttore del Giornale: riprendendo una frase di Gaetano Salvemini prima delle elezioni del 1948, scrisse lo slogan poi diventato molto famoso nella storia politica italiana: «Turiamoci il naso e votiamo DC».
Il terrorismo
Oltre alla situazione politica, un altro elemento importante della situazione era il terrorismo politico. Per dare un’idea del clima di quei mesi, tra dicembre 1975 e gennaio 1976 vennero attaccate con bombe e scariche di mitra quattro caserme dei carabinieri, due a Milano e due a Genova, in mezzo a tutta una serie di sequestri e ferimenti che apparivano sulle cronache a scadenza quasi settimanale. A fianco degli atti terroristici, diretti a dirigenti industriali, poliziotti e magistrati, c’erano poi frequenti e violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e tra estremisti di destra ed estremisti di sinistra.
Il 27 maggio 1976, poi, era cominciato a Torino il processo al cosiddetto “nucleo storico” delle Brigate Rosse, che aveva come imputati alcuni leader storici tra cui Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari. Nonostante questo, e una serie di arresti nei primi mesi di quell’anno, le Brigate Rosse riuscirono a portare a termine un’azione che fece grandissima impressione sull’opinione pubblica: l’8 giugno del 1976, solo dodici giorni prima delle elezioni, il procuratore generale della Corte d’Appello di Genova Francesco Coco venne ucciso insieme alla sua scorta. L’uccisione di Coco venne rivendicata dalle Brigate Rosse con un comunicato letto nell’aula del tribunale di Torino dai leader in carcere, durante un’udienza del processo.
Le elezioni del 20 giugno 1976
In questo clima teso e complicato si arrivò alle elezioni politiche, il 20 giugno 1976, le prime in cui l’età minima del voto venne abbassata da 21 a 18 anni. Lo spoglio diede al PCI il suo massimo risultato storico alle politiche, con il 34,4 per cento: 12,6 milioni di voti e 228 deputati. Il “sorpasso” però non ci fu, perché la Democrazia Cristiana prese il 38,7 per cento e circa un milione e mezzo di voti in più. Durante tutta la campagna elettorale la DC aveva invitato al voto per sé come unico argine al “pericolo rosso” antidemocratico e legato all’Unione Sovietica. Nonostante le difficoltà e le divisioni interne, la DC riuscì a recuperare molti dei voti che aveva perso nel 1975, togliendo però consensi ai partiti minori di centro come repubblicani e liberali.
Il terzo partito di quelle elezioni fu il Partito Socialista Italiano, che però si fermò al 9,6 per cento: il risultato venne vissuto come una sconfitta e portò alla sostituzione, un mese dopo le elezioni, del segretario Francesco De Martino con il leader di una corrente fino ad allora in minoranza, l’allora 42enne Bettino Craxi. Tra gli altri partiti, i radicali ottennero l’1,1 per cento ed entrarono in Parlamento.
Alla fine il blocco della sinistra (PCI + PSI + alcuni partiti minori) aveva ottenuto circa il 45 per cento dei voti, più o meno lo stesso del blocco di centro (DC + repubblicani + socialdemocratici + liberali). Senza una maggioranza parlamentare chiara – all’epoca si votava con un sistema proporzionale puro – si aprì quindi il problema di come formare il governo.
Senza maggioranza
Il PCI, dal 1972, era guidato dal segretario Enrico Berlinguer. La linea politica risentiva della situazione internazionale: Berlinguer proponeva la formula dell’”eurocomunismo”, ovvero l’alleanza tra i partiti comunisti europei (in particolare italiano, francese e spagnolo) per avere una maggiore autonomia dall’Unione Sovietica, ma il rapporto con l’URSS rimaneva sempre piuttosto ambiguo e i paesi stranieri, Stati Uniti e Germania Ovest in testa, non facevano mistero delle loro preoccupazioni per una partecipazione dei comunisti al governo.
Il punto centrale era infatti se i comunisti potessero o meno partecipare al governo, senza enormi conseguenze a livello interno e internazionale. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva detto a marzo che, con i comunisti al governo, i rapporti tra USA e Italia sarebbero cambiati parecchio; ma poi, il 14 luglio, Jimmy Carter – sulla via di vincere le presidenziali americane – disse che se il PCI fosse entrato nel governo italiano non sarebbe poi stata “una catastrofe”. Gianni Agnelli, allora potente e influente capo di FIAT e di Confindustria, aveva chiarito che secondo lui i democristiani non dovevano scendere a patti con il PCI, che da parte sua doveva rinunciare volontariamente a posizioni di governo per non causare la paralisi.
Il PCI non entrò a far parte del governo, ma nelle trattative politiche che seguirono, aperte a tutti i partiti meno che al Movimento Sociale Italiano, si decise di spartire le massime cariche istituzionali dello Stato tra i diversi partiti in base al loro peso elettorale, con la partecipazione del PCI: il democristiano Fanfani diventò presidente del Senato, il comunista Pietro Ingrao, invece, presidente della Camera (il primo del PCI nella storia della Camera dei deputati). Era la prima volta che si procedeva a questa mediazione, che poi proseguì negli anni successivi (a Pietro Ingrao successe Nilde Iotti, la prima donna presidente della Camera).
Quanto al governo, ci si accordò infine su un governo monocolore (ovvero con tutti i ministri dello stesso partito) della Democrazia Cristiana, guidato per la terza volta da Giulio Andreotti. Berlinguer disse in Parlamento, il giorno del giuramento del governo – 10 agosto 1976 – che il PCI aveva deciso per l’astensione perché aveva messo il bene del paese davanti alle questioni di opportunità politica.
La non sfiducia
Quel governo, che sarebbe durato fino al febbraio 1978, passò alla storia come il “governo della non sfiducia” o “delle astensioni”. La prima formula fu usata dallo stesso Andreotti, che alla Camera disse: «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati». La seconda formula, invece, fu il commento più facile davanti ai risultati del voto. La fiducia all’Andreotti III fu votata infatti da 258 deputati su 630, con 44 no e 328 astenuti; al Senato i “sì” furono 137 su 315, con 17 no e 161 astenuti. Oltre al PCI, non parteciparono al voto socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali: il governo partì avendo ottenuto più astensioni che voti favorevoli. Dato che al Senato l’astensione equivale a voto contrario, molti “astenuti” abbandonarono l’aula, ma non tutti in modo da non far mancare il numero legale.
Per un anno e mezzo, quindi, il governo Andreotti contrattò tutti i principali provvedimenti con il PCI, in una continua opera di mediazione che aveva per protagonisti Giulio Andreotti da una parte e Enrico Berlinguer dall’altra. Il PCI teneva a freno il sindacato e le possibili proteste sociali più estese: con questo sostegno sempre un po’ reticente, il governo Andreotti poté approvare alcuni provvedimenti impopolari per cercare di mettere in ordine i conti pubblici. Nel frattempo, la commissione parlamentare incaricata di indagare sullo scandalo Lockheed mise in stato d’accusa il socialdemocratico Mario Tanassi e i democristiani Mariano Rumor e Luigi Gui, con l’accusa di corruzione. Il parlamento approvò l’incriminazione di Gui e Tanassi, mentre Rumor ne uscì pulito.
Per diversi mesi il governo della “non sfiducia” continuò tra sottili equilibrismi, che però entrarono in crisi alla fine del 1977, quando ci furono alcune grandi manifestazioni contro il governo Andreotti. Nei cortei della sinistra extraparlamentare era chiamato addirittura “governo Berlingotti”: era iniziata anche la stagione cupa e violenta del Settantasette. A metà gennaio del 1978 si aprì la crisi di governo, che durò circa due mesi e si concluse nel marzo 1978 con un altro governo Andreotti, il quarto. Questa volta, però, i comunisti avevano accettato di votare a favore del governo (un altro monocolore democristiano). L’Andreotti IV si costituì l’11 marzo 1978: cinque giorni dopo, il 16 marzo, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della sua scorta, poche ore prima della presentazione del nuovo governo al Parlamento.