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IL GATTOPARDO, UN CAPOLAVORO INDIMENTICATO

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A seguito della riedizione della puntata di “Ulisse: il piacere della scoperta” dedicata alla Sicilia del Gattopardo, un viaggio nei luoghi evocati dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e dal capolavoro cinematografico di Luchino Visconti, si propone una breve lettura critica del film del regista milanese

di Franco La Magna

Da oltre sessant’anni si discute sull’indefinibile natura del romanzo; da circa mezzo secolo sulla “mutilazione temporale” apportata al film da Visconti. E la disputa esegetica dura tuttora. Il Gattopardo è un romanzo storico, metaforico, mitologico, allegorico, metafisico? Disseminato di più o meno celati riferimenti agli anni ’30 (l’autore, dopo l’approvazione delle leggi razziali nel 1938 diventerà antifascista), elementi mitologico-allegorici (tra i tanti, il principe don Fabrizio è descritto come un “Ercole farnese”, simbolo delle virtù eroiche dei Borbone), storici (il veloce passaggio di Garibaldi, che con una sola vera battaglia – Calatafimi – sbaraglia l’esercito borbonico in Sicilia), metafisici (la ricerca d’una regione di “perenne certezza”), l’opera sembra intenzionalmente costruita per sfuggire a corrive catalogazioni. E pretestuosa, dal punto di vista editoriale, appare l’infinita polemica con Vittorini, che coerentemente ne rifiuta la pubblicazione ponendo un veto ideologico, vista la “militanza” della collana da lui diretta (“I Gettoni” di Einaudi).

A fronte dell’opera letteraria, la rivisitazione storica risorgimentale compiuta da Visconti, giunge nel panorama filmico italiano apparentemente come un fulmine a ciel sereno in mezzo a tanta commedia, peplum e crescente comicità demenzial-vacanziera. In realtà Visconti sposta ancora più indietro le lancette della storia rispetto alla rinnovata crescita d’attenzione verso le tematiche resistenziali – entrate perfino nell’ottica della commedia. Maestoso, sontuoso, quasi tattile affresco del periodo risorgimentale, con Il Gattopardo Visconti affronta i temi irrisolti del penoso e contorto processo unitario nazionale, insieme al “malinconico” tracollo dell’antica aristocrazia legittimista di fronte all’ascesa di un nuovo, spregiudicato e corrotto ceto politico dirigente nato dal compromesso e già affetto da inguaribile tartuferia. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: la celeberrima frase dell’astuto e avveduto nipote del principe di Salina, Tancredi, riassume il senso del trapasso da uno ad altro periodo storico, individuando il nucleo dell’aberrante costante della Storia siciliana.

Ma come aveva già fatto con La terra trema (1948), spezzando il cupo fatalismo verghiano con l’applicazione di un impianto ideologico di derivazione gramsciana, Visconti costruisce lo sfarzoso Gattopardo ancora sulla tesi gramsciana del Risorgimento come “rivoluzione mancata”, accordo scellerato tra aristocrazia declinante e rapace borghesia agraria (che sognava l’imprimatur del “sangue blu” e s’inventava ascendenze patrizie, come fa penosamente don Calogero Sedara), avverso le secolari rivendicazioni contadine riaccese dal passaggio di Garibaldi e subito deluse. Di contro: estetismo, decadentismo, intimismo, ossessiva presenza della morte, acclarano la “sintesi paradossale” di un film commercialmente fruttuoso e tuttavia talmente dispendioso da provocare il momentaneo tracollo della Titanus, costretta per qualche anno ad una produzione di b-movies e risorta a conferma delle straordinarie capacità imprenditoriali di Goffredo Lombardo.

Scenograficamente “abbagliante”, rivisitazione spettacolosa dell’infelice universo “siceliota”, Il Gattopardo getta (con l’apporto di una mai celata cultura figurativa) uno sguardo “privo di illusioni”, aristocratico e distaccato, sui vincitori visti come caricature dell’ideologia, miserabili raffigurazioni di camarille e tartufi, svelando un corposo “disprezzo del presente” estraneo ad ogni dialettico movimento della Storia.

Singolare la scelta del regista di operare una radicale elisione di tutta l’ultima parte del romanzo – che ha termine nel 1910, anno in cui si estingue la dinastia dei Salina e “tutto trova pace in un mucchietto di polvere livida” – quegli ultimi capitoli che Tomasi di Lampedusa considerava la chiave di lettura del libro. Il film chiude invece con il grande ballo organizzato a palazzo Ponteleone nel 1862, spettacoloso suggello dell’accordo tra aristocrazia latifondista e retriva borghesia isolana, con il placet piemontese.