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Il familiare che fa da badante ha diritto alla retribuzione?

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Il nipote che accudisce l’anziano nonno o la zia non più autosufficiente può rivendicare un compenso oppure no? La Cassazione ha stabilito di cosa i familiari debbono tener conto. I dettagli.

L’assistenza dell’anziano non più autosufficiente rappresenta un caso ricorrente in un nucleo familiare. Al posto di contattare una figura che vada ad occuparsi della persona come badante a tempo pieno, o part time, potrebbe essere il nipote – ad esempio – ad occuparsi di gestire le necessità dell’assistito o dell’assistita, come la zia o la nonna.

Ebbene, in circostanze come queste, al di là del legame affettivo oltre che di parentela, è opportuno fare considerazioni di tipo economico, ovvero: è legittimo domandare e ottenere una retribuzione proprio come se al posto del familiare che accudisce la persona non più autosufficiente, vi sia un / una badante? Si può parlare di una sorta di rapporto di lavoro ’alternativo’ – anche in nero – rispetto a quello che vede coinvolta la classica figura della badante?

Di questo parleremo nel corso di questo articolo, anche perché non sempre questo tipo di assistenza si conclude in una ’finestra’ di poche ore in una giornata. Talvolta l’impegno potrebbe invece occupare una buona fetta del proprio tempo e, dunque, chiedersi di un possibile diritto ad essere ricompensati, è del tutto lecito. Grazie alla giurisprudenza chiariremo questo tipo di situazione e vedremo se davvero si può essere pagati. Il familiare che fa da badante ha diritto alla retribuzione? Scopriamolo.

Il familiare che fa da badante ha diritto alla retribuzione?

Diritto al compenso di chi accudisce il familiare: la Cassazione sul punto

La Corte di Cassazione con una sentenza di alcuni fa (la n.12433 del 2015), che continua ad essere un punto di riferimento sul tema di cui stiamo parlando, ha affermato in linea generale che:

le prestazioni di lavoro compiute tra persone legate da vincoli di parentela o affinità si debbono intendere svolte a titolo gratuito,

e questo per lo specifico vincolo che lega i soggetti del rapporto e la comunanza spirituale ed economica tra loro esistente.

In altre parole, secondo la Suprema Corte in casi come questi non scatta alcun diritto alla retribuzione ed anzi è del tutto naturale e tipico dei rapporti umani, che un nipote o una nipote faccia da badante a una nonna o a una zia per il mero spirito affettivo. Ciò vale in generale, e ad essere determinante è il legame di sangue che spinge alla prestazione assistenziale in sé, senza con ciò poter pretendere ricompense economiche. Al contempo non rileverebbe il fatto di essere conviventi oppure no, con la persona accudita.

Tuttavia la Cassazione nella stessa sentenza citata indicava anche come superare questa presunzione di gratuità della prestazione di lavoro.

La prova della subordinazione

Per poter rivendicare compensi economici, il familiare che assiste l’anziano e lo accudisce dovrebbe dare la prova della non gratuità della prestazione. Come? Dimostrando, in una eventuale causa in tribunale, che vi è stato un vero e proprio vincolo di subordinazione pur all’interno del contesto parentale.

La subordinazione implica un effettivo rapporto di lavoro che, in quanto tale, va al di là doveri di solidarietà ed affettività ed, anzi, merita di essere riconosciuto anche sul piano economico / retributivo.

Non sempre detta prova sarà però facile da ottenere: basti pensare ai tanti casi in cui la persona assistita e il familiare che se ne occupa abitano nella stessa casa. Meno complicato in ipotesi di persone non conviventi, ma è vero che – in ambo le situazioni – la prova dell’esistenza del lavoro subordinato andrà trovata individuando gli elementi costitutivi o i requisiti tipici della subordinazione.

Gli elementi che provano il lavoro dipendente

Il familiare che ambisce ad ottenere il compenso non ancora versatogli, dovrà rivolgersi al tribunale e dimostrare al giudice che davvero si è occupato del nonno o della nonna come un vero e proprio lavoratore alle dipendenze – e non per mere ragioni affettive.

In particolare il rapporto di lavoro subordinato sussisterà se saranno dimostrati in tribunale i seguenti requisiti:

un orario di lavoro preciso e da rispettare;

l’applicazione di direttive o comandi che giungono dall’assistito / assistita;

il versamento (promesso) di una retribuzione periodica per il lavoro di assistenza svolto a favore del familiare.

Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione il rapporto di lavoro domestico risultava peraltro accertato anche dalla prova testimoniale.

Ebbene, i citati elementi sono sempre decisivi per dimostrare la subordinazione, dare la prova e superare la presunzione di gratuità dell’attività di assistenza di cui abbiamo parlato sopra. Se l’interessato/a ne dimostra l’esistenza nel proprio caso concreto, potrà così chiedere che sia dichiarata la presenza di un rapporto di lavoro – pur in nero – e pretendere di essere pagato/a per il lavoro svolto e gli eventuali straordinari effettuati.

Il caso concreto

Quanto sopra è la sintesi dell’orientamento ribadito dalla Corte di Cassazione, di grande utilità per i casi come quelli di cui abbiamo parlato e che coinvolgono il familiare che fa da badante e che si chiede se ha diritto alla retribuzione oppure no.

Nello specifico caso affrontato dalla Cassazione con la sentenza del 2015, la Corte d’appello di Milano – riformando la decisione in primo grado – aveva in precedenza condannato una donna al pagamento di una somma di quasi 70mila euro, ritenendo che tra essa e la persona che la accudiva – sua familiare – vi fosse stato, per circa un ventennio, un rapporto domestico di natura dipendente per il quale la familiare stessa non aveva incassato alcuna retribuzione.

In particolare la Corte d’appello aveva evidenziato che il rapporto domestico risultava dimostrato dalla prova testimoniale, e che era perciò da escludere la presunzione di gratuità di questo per via del legame affettivo tra le due donne. Conseguentemente questo giudice aveva condannato la persona assistita al versamento del denaro, e ciò sulla scorta delle retribuzioni calcolate dal consulente tecnico d’ufficio.

Si arrivò in seguito al ricorso per Cassazione contro questa sentenza in appello e in quest’ambito, il giudice di legittimità confermò la bontà del ragionamento della Corte d’appello. D’altronde in precedenza era emerso dalla prova testimoniale che, effettivamente, la familiare effettuava le faccende domestiche, lucidava i pavimenti, lavava i piatti, puliva i mobili e svolgeva ogni attività di assistenza seguendo le direttive della persona anziana – e sotto il suo controllo.

Non solo. In questa situazione, non dissimile da tante altre che possono verificarsi in moltissimi contesti familiari, era altresì emerso che per tali prestazioni di lavoro, era stato sempre promesso il versamento di una somma di denaro proporzionata alla mole di attività svolte. Tuttavia detto compenso non fu mai corrisposto.

Il quadro pertanto permetteva di superare la presunzione di gratuità delle prestazioni, a nulla rilevando il legame affettivo tra le due donne – creatosi per effetto della prolungata durata del rapporto in essere.

Concludendo, la Cassazione affermò la correttezza giuridica del ragionamento della Corte di appello di Milano, avendolo ritenuti privo di vizi logici e giuridici. Respinse dunque il ricorso, confermando la presenza di prestazioni riconducibili allo schema del rapporto di lavoro domestico dipendente, con annesso diritto del familiare che fa da badante, ad avere una retribuzione.

 

 

Di Claudio Garau – fonte: https://www.money.it/