di Umberto Ranieri
Giunto faticosamente al cosmodromo di Vostchny nell’estremo oriente russo dopo un viaggio di due giorni in un treno blindato per timori di attentati, Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano, si è impegnato a prelevare dai suoi arsenali militari, per fornirli a Putin, munizioni e armamenti con cui il leader russo potrà proseguire la guerra di aggressione all’Ucraina. In cambio si aspetta la difesa del suo impresentabile regime nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dove Mosca dispone del diritto di veto. Il maresciallo tuttavia è interessato soprattutto a che la Russia trasmetta al regime nordcoreano le conoscenze per sviluppare la tecnologia missilistica, essenziale per accrescere la propria minaccia verso la Corea del Sud e il Giappone e far pesare sul mondo il ricatto nucleare. Che il presidente russo, per rifornirsi di armi, si rivolga al despota di un regime che ha ridotto in schiavitù e alla fame il proprio popolo è forse la manifestazione più drammatica dell’abisso in cui Putin rischia di precipitare la Russia.
Alcuni tratti del regime russo ricordano sinistramente il totalitarismo degli anni trenta del 900. I contrasti interni al gruppo politico militare dominante si regolano in Russia secondo la tecnica adoperata per liberarsi di Prigozhin, il capo dei mercenari della Wagner, l’agguato mortale. Una tecnica tipica, negli anni trenta, dei regimi totalitari. Nella Mosca di Putin non si esita a far ricorso alla violenza fisica, alla condanna a decenni di carcere e all’omicidio per piegare la volontà degli oppositori, mentre nella Piazza Rossa e negli stadi si convocano manifestazioni a sostegno della guerra.
Una campagna di bombardamenti a tappeto è condotta dalla Russia contro tutto il territorio dell’Ucraina colpendo la rete elettrica e idrica, scuole, ospedali, quartieri residenziali con l’obiettivo di spingere la popolazione alla disperazione e alla resa. Tutto ciò Putin lo fa continuando a sostenere ipocritamente che la sua non è una guerra bensì una “operazione militare speciale”. Quando il 1 settembre del 1939 la Germania invase la Polonia, il ministro degli esteri tedesco Joachim von Ribbentrop diede l’ordine di inviare una circolare a tutte le missioni presso altri Paesi nella quale si diceva: “Questa azione per il momento non può essere definita guerra ma semplicemente un insieme di operazioni militari determinate da attacchi polacchi”. Insomma, per il Fuhrer e il suo ineffabile ministro degli esteri, l’aggressione alla Polonia, potremmo dire oggi, non era che una “operazione militare speciale”.
Un altro aspetto del comportamento del presidente russo evoca sinistri precedenti. Putin non perde occasioni per ricordare minacciosamente che la Russia sta lavorando a nuove potentissime armi, a Vladivostok ha parlato addirittura di sistemi d’arme basati su “nuovi principi fisici”, gli fanno eco le parole dissennate del vice del consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev che parla di olocausto nucleare imminente e ricorda che le nuove armi serviranno per contrastare i Paesi occidentali.
Cosa è diventata la Russia? E’ in atto una militarizzazione sempre più marcata della sua economia. I motori della crescita sono ormai le armi e le munizioni per l’artiglieria, i trasporti e l’elettronica utili alla macchina della guerra. Una economia bellica non investe sul futuro, lascia in secondo piano gli altri settori che contribuiscono allo sviluppo e al benessere di una nazione innescando un lento declino della qualità della vita e della produttività. Il bilancio statale della Federazione russa dipende ancora dall’export energetico e dalle imposte sulla estrazione di gas e petrolio.
Se l’obiettivo della “operazione militare speciale” era contrastare una ulteriore avanzata della Nato e favorire una maggiore autonomia strategica europea dagli Stati Uniti, con l’aggressione all’Ucraina la Russia ha ottenuto il risultato opposto: una coesione politico-strategica dell’Occidente, l’ingresso nella Nato di due Paesi di antica tradizione neutrale. Se l’obiettivo era prevenire l’approdo europeo di Kiev, il 23 giugno del 2022 è stato riconosciuto dalla Commissione europea alla Ucraina lo status di Paese candidato a diventare membro dell’Ue. In qualsiasi paese democratico Putin dovrebbe lasciare la sua carica, dimettersi, cambiare mestiere. Difficile possa accadere con il voto del prossimo anno in Russia.
Ma quanto potrà reggere la Russia? Il gas e il petrolio continueranno a offrire le risorse per proseguire l’avventura della guerra. Tuttavia, come ha scritto il politologo russo Kirill Rogov su The Economist, con gli introiti del petrolio e del gas “è come essere sotto anestesia, la crisi resta nascosta ma non significa che l’economia sia forte”.
Putin sembra riporre la speranza di una lacerazione dell’Occidente nella vittoria di Trump. Tornano i dilemmi con cui l’Occidente deve fare i conti. Riusciranno gli Stati Uniti a venir fuori dalle loro difficoltà? L’Europa manterrà la propria unità? Si riuscirà a far decollare una alleanza tra le democrazie del Sud globale e del Nord del mondo? Alleanza centrale per il futuro dell’ordine internazionale e per la tutela dei principi liberali sui quali si fonda. Queste le sfide. Ma prima di tutto, decisivo oggi è continuare a sostenere la lotta del popolo ucraino.