AGI – Leo Hickman è stato editorialista del Guardian, celebre la sua rubrica di consigli green ai lettori. Giornalista riconosciuto come grande esperto di sostenibilità e cambiamento climatico, è stato anche ambientalista della prima ora. In “La mia vita ridotta all’osso” ha raccontato un anno alla ricerca dello “spreco zero”. Oggi dirige Carbon Brief un sito dedicato agli sviluppi nelle scienze che studiano il clima e nella loro applicazione.
Domenica 14 marzo alle ore 18 Hickman sarà ospite di Internazionale a Ferrara, il festival di giornalismo del settimanale, per parlare proprio di sostenibilità applicata alle scelte del consumatore e capire in che misura l’iper-responsabilizzazione del cittadino possa rappresentare in realtà uno strumento per ritardare interventi di altro genere, come ad esempio quelli della politica. L’appuntamento, come tutto il festival, sarà in diretta streaming sulla pagina facebook della rivista. Agi ha raggiunto Hickam prima dell’evento per capire in che modo la pandemia abbia influenzato il modo di pensare all’ambiente.
Il covid ha accelerato un processo che era già in atto da un po’ e che ha portato le persone verso comportamenti sempre più sostenibili. Quali sono a suo parere le rivoluzioni che porteremo con noi anche nella nuova, attesa, normalità?
Penso che non siamo nuovi a cambiamenti profondi e improvvisi nella mobilità delle persone. Ma mi chiedo quanto tempo durerà tutto questo una volta che saranno terminati i blocchi e le restrizioni. Sì, alcune persone hanno pedalato di più, ma penso che la maggior parte dei guidatori tornerà alle proprie auto, dove non è escluso che si sentano anche più al sicuro rispetto ai mezzi pubblici. Tuttavia, penso che quello che invece sarà cambiato per sempre sarà il nostro atteggiamento nei confronti del lavoro negli uffici. Molte più aziende oggi permettono ai loro impiegati di trascorrere molto più tempo lavorando da casa, in smart working.
Lei è stato un anticipatore dei tempi, ha raccolto la sfida ecologista molti anni fa, secondo lei cosa avrebbero potuto fare i Paesi per sostenere una “transizione dolce”?
Alcuni di questi cambiamenti richiedono che le persone prendano decisioni difficili. Spesso è necessario cambiare radicalmente i propri comportamenti, alterare le abitudini che si erano tenute per tutta la vita e talvolta richiedono anche un costo extra. Per questo credo che i governi che hanno fatto meglio siano quelli che hanno aiutato le persone a compiere questi cambiamenti. Senza forzarli, ma aiutandoli. Di solito è una combinazione di “carota e bastone”. Un misto di regolamentazione che impedisce determinate azioni inquinanti con incentivi a fare una scelta migliore.
Non crede però che in un certo senso la progressiva responsabilizzazione del consumatore sulla sostenibilità dei suoi comportamenti sia un modo attraverso cui la politica cerca di ritardare la propria azione?
Sì, penso che sia una giusta preoccupazione. Abbiamo osservato che alcune azionde trasferiscono il senso di colpa e la pressione sulle spalle dei loro clienti, piuttosto che intraprendere azioni significative da sole. È una loro tattica per ritardare ulteriormente l’azione? Sì, in alcuni casi penso proprio che sia così.
In uno dei suoi ultimi libri lei racconta il cambiamento climatici ai bambini, quali consigli si sente di dare a i più piccoli?
Penso che molti bambini siano davvero perspicaci e intelligenti quando si tratta di capire che qualcuno non sta dicendo loro la verità o sta cercando di vendere loro qualcosa in un modo sbagliato. Il consiglio che mi sento di dare è quello di essere un po’ scettici sulle “grandi rivelazioni”. Penso che sia un buon consiglio per tutti noi.
In Italia è nato un nuovo ministero, quello della Transizione ecologica, cosa ne pensa? Molti settori produttivi chiedono di essere parte di questo processo invocando una “sostenibilità competitiva”. Crede sia possibile coniugare produttività e sostenibilità?
Sì, certamente. Ma, ancora una volta, tutti devono applicare un po’ di scetticismo e buon senso. Nel Regno Unito, ad esempio, il nostro PIL nazionale è in crescita dal 1990, ma le nostre emissioni sono diminuite di circa il 50%. Quindi il Regno Unito a volte è visto come un Paese che, in una certa misura, ha “disaccoppiato” la sua crescita economica dalla crescita delle sue emissioni di carbonio, due indici che da sempre invece crescono in parallelo. Ma se guardiamo i dati più da vicino possiamo notare che il Regno Unito ha anche esportato gran parte della sua produzione all’estero, in luoghi come la Cina. Pertanto, abbiamo esportato anche le nostre emissioni. Ad esempio, se acquisto una lavatrice costruita in Cina e la usiamo a casa in UK, quale Paese è responsabile delle emissioni di produzione? Il Regno Unito (il consumatore) o la Cina (il produttore)? Sotto l’attuale guida internazionale, vengono messi sul totale della Cina. Ma è giusto se sono io ad aver generato la domanda per quel prodotto?
Source: agiestero