AGI – Non solo pane. La spirale innescata dalla instabilità geopolitica che ha fatto alzare vertiginosamente i prezzi di energia e materie prime, si sta abbattendo con i suoi effetti anche sul settore della carne con aumenti del costo all’ingrosso che sfiorano il 20% – le stime sono tutte concordi – su prezzi che però erano pressoché stabili dal 2000, nonostante la naturale inflazione.
Ma in che modo l’aumento del costo dei cereali si riflette anche su questo settore? “Il mais è il principale ingrediente dell’alimentazione animale – spiega Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia e presidente di Assocarni – per cui il suo aumento comporta direttamente l’aumento del costo della razione quotidiana degli animali e quindi dei costi di produzione per i nostri allevatori”. Insomma il legame è decisamente lineare: a un aumento del costo del mais fa seguito un aumento di quello del mangime animale che fa lievitare di conseguenza il costo della carne delle diverse specie e del latte. E questo fenomeno si manifesta in un momento in cui “la zootecnia versava già in una situazione di grave difficoltà – continua Scordamaglia – per il mancato riconoscimento dell’aumento dei costi di produzione di carne e latte da una parte della grande distribuzione, con questi ulteriori aumenti la situazione diventa drammatica”.
Ma non è solo il costo del mais “Il problema più urgente – continua Scordamaglia – è diventato, proprio in questi giorni, l’assenza di fertilizzanti che la Russia produce per oltre il 20% della produzione globale e senza i quali rischiamo anche i raccolti futuri. Abbiamo chiesto subito che venga consentito l’utilizzo immediato del digestato – il miglior fertilizzante alternativo possibile esistente – ottenuto dai biogas (l’Italia è il quarto paese produttore mondiale) e siamo lieti che il Governo ci sia seguendo su questo”.
A livello europeo oggi il 40% dell’intero comparto agroalimentare è composto dall’allevamento che vale circa 170 miliardi di Euro e impiega direttamente più di 4 milioni di persone. “I prodotti animali contribuiscono alla nutrizione umana mondiale per il 20% delle calorie, il 35% delle proteine e oltre il 50% dei nutrienti fondamentali (aminoacidi essenziali, vit B12, ferro, ecc.). Sono perciò insostituibili in quanto la loro mancanza causerebbe gravi carenze, soprattutto in età evolutiva, come la letteratura medica ha constatato e confermato nelle aree più povere in cui madri e bambini hanno una alimentazione povera di questi cibi” dice Giuseppe Pulina, presidente di Carni sostenibili, l’associazione no profit che unisce le principali sigle che rappresentano i produttori di carne, Assocarni, Assica e UnaItalia.
“Eliminando i prodotti animali, che consumano solo il 14% degli alimenti destinati all’uomo, ci priveremo di apporti decisamente più consistenti di proteine e soprattutto di micronutrienti. Per cui il conto di sostenibilità sarebbe in drammatica perdita. Inoltre, la gran parte delle aree utilizzate dagli animali zootecnici, ruminanti in particolare, non sono coltivabili, se non con gravi e irreparabili danni alla biodiversità e al suolo, per cui l’unico modo per ottenere alimenti per noi è il pascolamento. Infine, per le emissioni di gas climalteranti, eliminare gli animali non cambierebbe il bilancio del carbonio, in quanto quello emesso dagli stessi, anche in forma di metano, è di origina biogena e rientra nei cicli mentre quello in più che si dovrebbe utilizzare per aumentare le coltivazioni (che per unità nutrivita impiegano più energia per ettaro) sarebbe di origine fossile e pertanto cumulerebbe l’effetto serra”.
Ma tornando al costo della carne, da dove ha origine questa spirale di aumenti? Secondo Scordamaglia la colpa non è tutta attribuibile all’impennata del prezzo delle materie prime “sebbene la zona colpita dalla guerra russo Ucraina sia responsabile della produzione di circa il 20% del mais globale, la sensazione è che siamo di fronte anche a comportamenti fortemente speculativi a livello internazionale di stoccaggio di tale prodotto con la finalità di farne aumentare il prezzo per poi metterlo sul mercato”.
La dipendenza dell’Italia da Paesi stranieri è un fenomeno noto, che in questi mesi è emerso prepotentemente per il settore dell’energia e ora anche per l’agroalimentare. Ma se per l’energia sono già stati definiti dei piani per svincolarsi dalle fonti russe, anche se di lungo periodo, per le materie prime agrarie invece sembra che l’Italia sia destinata a perpetuare la sua non autosufficienza. “Non proprio, come filiera Italia e Coldiretti – continua il consigliere delegato – abbiamo evidenziato la possibilità che il nostro Paese, con adeguate forme di intervento pubblico, metta immediatamente a disposizione un’ampia superficie coltivabile per aumentare il livello di autoapprovvigionamento della produzione nazionale di mais che in 15 anni è precipitata dalla totale autosufficienza ad appena il 50% di questa”.
Un tema, quello della sovranità alimentare che vale per la carne come per il grano e che riguarda anche le nostre politiche europee “Già prima delle recenti tensioni internazionali sui mercati avevamo denunciato la necessità che la strategia Farm to fork fosse preceduta da una seria valutazione di impatto per capirne gli effetti sulla produzione agroalimentare europea”. dice Scordamaglia “ed è ancora più vero oggi, quando i capi di Stato e di governo riuniti a Versailles individuano nella sovranità alimentare un bene assoluto da tutelare sia a vantaggio dei consumatori europei che delle parti più povere del pianeta. Andare avanti in una strategia che secondo recenti studi porterà a un crollo della produzione agroalimentare europea in alcuni casi del 30% aumentando l’insicurezza alimentare globale oltre al prezzo di tutti i prodotti agricoli e alimentari, è miope e irresponsabile, significherebbe diventare ancora più dipendenti da Paesi terzi, come ad esempio da quelli del mercosur che tra l’altro non garantiscono gli stessi standard di sicurezza ed ambientali. Insomma ripetere ottusamente gli errori già fatti per la dipendenza dell’energia”.
Esiti che nell’analisi di Scordamaglia sembrano essere ancora peggiori se guardiamo al solo settore della carne “I danni principali di questi scenari si stanno riflettendo sulla nostra filiera zootecnica di carne e latte, da cui derivano la maggioranza delle eccellenze alimentari del Paese. Abbiamo irresponsabilmente smantellato la produzione bovina italiana, passata in qualche decina di anni da 10 milioni di capi alla metà. Una volta che facciamo chiudere una stalla, questa non apre più e ci troveremo costretti all’importazione da aree del globo che producono con standard inferiori ai nostri”.
In sintesi per far fronte agli aumenti, non basta svincolarsi dalla Russia e magari aumentare le importazioni ad esempio con gli Stati Uniti o Argentina, come abbiamo sentito in queste settimane. “Se un paese come la Cina stocca in pochi mesi il 60% della produzione di grano globale, il 50% del mais e di riso, è immediatamente comprensibile che aumentare la dipendenza dei Paesi terzi non è la soluzione e che aumentare l’importazione vuol dire solo indebolire da un punto di vista geopolitico il continente europeo – dice Scordamaglia – oggi l’assenza di cereali è dovuta anche a fenomeni speculativi spesso intra-europeo (si veda quello che ha fatto ad esempio Ungheria) che vanno immediatamente contrastati”.
Cosa fare quindi? “L’unica soluzione – prosegue il consigliere delegato – non è aumentare l’import ma una immediata modifica della Pac cancellando ogni forma di sostegno al non utilizzo di terreni produttivi e un aumento delle risorse per sostenere strumenti che aumentino il livello di autoapprovvigionamento alimentare. Inoltre per quanto riguarda le importazioni da paesi terzi bisogna implementare immediatamente la proposta francese di consentire esclusivamente importazioni nella Ue di prodotti che da un punto di vista ambientale qualitativo e lavorativo rispettino – e siano in grado di dimostrarlo – gli stessi standard previsti per gli agricoltori europei”.
In particolare dal punto di vista ambientale “La Fao ci dice che gli allevamenti animali impattano, per i gas serra, per il 14,5%, considerando anche il cambio di uso del suolo” spiega il professor Giuseppe Pulina “Tuttavia – conclude – nei Paesi sviluppati questi dati sono decisamente inferiori, In Italia Ispra calcola per tutta l’agricoltura un impatto del 7% circa, per la zootecnia del 5% circa e per la carne del 3,2% circa sugli impatti totali. Questi dati inoltre mostrano una diminuzione progressiva dal 1990 a oggi e una bilancio del carbonio dei sistemi rurali dedicati alle produzioni animali in credito di carbonio (circa 1 milione di tonnellate all’anno). Se si considera che produrre 1 kg di latte bovino nel 1950 impattava 4 volte di più di oggi e che per la carne bovina siamo a un quarto (mentre per avicoli e suini siamo a un terzo) possiamo capire come la intensivizzazione sia stata sostenibile per l’Italia”.
Source: agi