La soluzione alla questione oggi, forse, è nella lezione che il leader radicale prefigurò nell’88 sul Jerusalem Post: «I confini israeliani possono essere i confini d’Europa e del mediterraneo»
Rosario Scognamiglio · 18 Ott 2023
Abbiamo chiesto ad alcuni dei ragazzi che hanno partecipato alla scuola di formazione politica Meritare l’Europa di scrivere gli articoli che vorrebbero leggere più spesso sui quotidiani . Uno sguardo sul mondo degli under 35
Lo Stato d’Israele nasce ufficialmente nel maggio del 1948, dopo la risoluzione ONU n°181 del 1947. Le Nazioni Unite, in seguito alla tragedia dell’olocausto e ai primi conflitti sorti tra le comunità arabo-palestinesi e ebraica scatenati dal mandato britannico del 1939, optarono per la soluzione “dei due Stati”. Il territorio, stretto tra Egitto, Siria, Libano e Giordania, veniva diviso tra una Stato israeliano e uno palestinese. La soluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tuttavia, non venne mai accettata dagli Stati arabi confinanti che occuparono deliberatamente le porzioni di territorio palestinesi, all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele. L’occupazione da parte dei paesi arabi comportò l’inizio di un conflitto con il neonato stato israeliano che si concluse nel giro di un anno. A questo primo conflitto seguirono, per circa 20 anni, altri tre conflitti: La crisi di Suez nel 1956; la guerra dei sei giorni tra il 5 e il 10 giugno del 1967 e la guerra dello “Yom Kippur” nel 1973. Questi tre conflitti, in estrema sintesi, possono essere descritti come la volontà degli Stati arabi di annientare lo Stato israeliano, contrapposta a quella degli Israeliani di resistere per conquistare il loro diritto ad esistere come popolo e come Stato. I tre conflitti videro lo Stato israeliano resistere agli attacchi arabi, vincere sulle armate egiziane e siriane e conquistare territorio. Alla guerra del Kippur, seguirono gli accordi di Camp David nel 1978, dove Israele accettò di ritirare le truppe dal Sinai; sei mesi dopo, con l’intervento degli Stati Uniti, a Washington, fu firmato nel marzo del 1979 il primo accordo di pace arabo-israeliano. Il presidente egiziano Al-Sadat e l’israeliano Menachem Begin si impegnarono a riconoscere reciprocamente i due Stati; in più Israele si impegnò a restituire territori occupati, in particolar modo la penisola del Sinai all’Egitto. Tale relativo stato di pace, dopo il conflitto in Libano, vide il ritorno ad uno stato di instabilità per Israele. Nei territori di Gaza e della Cisgiordania, le comunità palestinesi diedero vita ad un movimento di protesta definito “intifada” (sollevazione) che si caratterizzò per la partecipazione delle giovani generazioni alla lotta per il riconoscimento dei diritti civili e politici. Le proteste furono caratterizzate da scioperi bianchi e serrate delle attività commerciali; in un secondo momento assunsero forme di guerriglia urbana, dove gli insorti lanciavano pietre contro i soldati israeliani. Se la prima Intifada poteva trovare sostegno nel marxismo europeo, la seconda Intifada, scoppiata a ridosso del nuovo secolo, vide la nascita di un’organizzazione islamista sunnita denominata Hamas. Hamas, legata a doppio filo alla fratellanza musulmana, ha modificato i connotati della protesta, trasformandola in un vero e proprio Jihâd. Da quando Hamas controlla Gaza si sono susseguiti numerose azioni terroristiche contro Israele che hanno avuto il loro epilogo nel tragico e inumano attacco del 7 ottobre scorso dove terroristi jihadisti hanno massacrato cittadini israeliani inermi. In vero, la soluzione alla questione arabo israeliana non può più reggere sulla risoluzione ONU e sul principio dei due Stati.
Ragionare ancora su due stati-nazioni, oggi, appare irrealistico e foriero di inevitabili conflitti dovuti a egoismi personali. La soluzione, forse, è nella lezione che il leader radicale Marco Pannella prefigurò in un articolo del 1988 sul Jerusalem Post: “I confini israeliani possono essere i confini d’Europa e del mediterraneo”. Solo se si abbandona la logica degli Stati nazionali e l’Europa comprende che Israele può essere uno spazio dove lo Stato di diritto può avere alloggio e prosperare e dove la difesa e la sicurezza dei cittadini israeliani coincide con quella di 300 milioni di persone, la pace può essere raggiunta e i territori occupati possono essere lasciti. L’Europa, che troppe volte, ha lasciato la mano ad altri attori internazionali su questa faccenda, dopo il vile attacco terroristico del 7 ottobre, ha l’opportunità di tornare protagonista nella politica estera in Medioriente proponendo l’unica soluzione possibile: abbandonare la logica degli stati-nazioni e costruire nel Mediterraneo una frontiera di diritti, libertà e democrazia, aggiungendo un’altra stella alla bandiera europea.
“Io, musulmano, ho tantissimi amici ebrei e sono incazzato nero. Quelli di Hamas sono terroristi assassini, bastardi criminali che hanno ammazzato innocenti, persino bambini, violentato donne. Sono una vergogna per l’Islam. Non rappresentano che se stessi, e vanno eliminati”. Ben Mbarek, 41 anni, marocchino, musulmano, orfano del papà da quando ha 6 mesi, trapiantato (in più sensi, lo vedremo) in Italia dove è arrivato a sei anni con la mamma su un barcone nel 1987, e oggi imprenditore di successo a Firenze, si dispera. E non usa mezzi termini. “Mi sono stufato di non sentire una voce musulmana capace di dire le cose come stanno, e come la stragrande maggioranza di noi musulmani pensa. Io non voglio che si associ l’Islam a queste bestie. Non ci deve essere alcun paradiso per loro. Queste bestie offendono tutti i musulmani per bene”. Ben ha una storia straordinaria, di quelle che mi hanno molto commosso. Arriva in Italia, dal Marocco, a sei anni, su un barcone, con la mamma. Vengono accolti a Empoli dalla famiglia di Teresita Mazzei, primaria di oncologia dell’ospedale Careggi di Firenze (“Ancora oggi quando ci vediamo è una festa, gli sono molto grato”). Poi, a scuola fino alla terza media, a Firenze, quindi pasticcere a 16 anni (“Avevo il sogno di aprire una pasticceria”, diceva sempre a mamma). Mamma che, da donna di grande dignità, ha sempre lavorato come domestica, o cameriera in ristoranti e hotel, e che oggi vive con lui. Poi l’intuizione della moda, nata dalle prese in giro dei suoi amici: “Ci tenevo molto a vestirmi bene. Ogni volta che ci trovavamo, i miei amici esclamavano: ‘Ecco, è arrivato lo stilista’”, ricorda ridendo. Ben ha un carattere solare, è un entusiasta, contento di essere ormai fiorentino, ricorda quanto bene sia sempre stato trattato in Italia (“Io mi sono sempre comportato bene, e di razzismo sulla mia pelle non ne ho mai patito”), e lasciata la pasticceria comincia a produrre artigianalmente vestiti che vende ai commercianti di Firenze. Ma ha un sogno e lo insegue: “Fare qualcosa di grande e di mio, diventare imprenditore, l’ambizione è il sentimento che mi rappresenta meglio”, dice. Fonda quindi Benheart, azienda che oggi conta 10 negozi nel mondo (5 in Italia, poi Stati Uniti, Emirati Arabi e Francia) e 34 dipendenti, 30 di quali italiani (“Ma do da lavorare a 190200 persone, se consideri l’indotto”, dice con l’orgoglio di chi si è arrampicato sull’albero della vita, da solo e partendo da zero, e la freschezza di chi è entusiasta della vita che aveva tragicamente perso e poi ritrovato). Il marchio si compone infatti del suo nome, e della parola ‘cuore’ in inglese, che affonda le radici in una tragedia a lieto fine. La passione per il calcio, dove Ben gioca fino in terza categoria (“Ero bravino come mezz’ala sinistra”) lo porta, nel 2011, su un campo di calcio a Scandicci. In piena partita, Ben crolla a terra: arresto cardiaco. Defibrillato, viene ricoverato a Siena. Coma farmacologico per sette mesi. Poi, il miracolo del trapianto: “Io che sono musulmano credente, sono rinato col cuore di un cristiano”. Il donatore è infatti un ragazzo italiano. “Sono orgoglioso e onorato di avere quel cuore, e io dico sempre di fare Made in Italy al 100% anche perché il prodotto è pensato col cuore, con quel cuore”, dice molto fiero.
“Io ho amici di ogni religione, e non voglio che l’Islam sia associato a queste bestie di Hamas. Sono le pecore nere dell’Islam, vanno perseguitati in ogni centimetro di mondo. Mi piange il cuore a sapere che ora tante persone, bambini compresi, rischieranno di morire in Palestina solo perché si trovano nel posto sbagliato, con la gente sbagliata. E non voglio che i miei figli, che hanno un cognome arabo, vengano visti male a causa loro. È il motivo per cui io voglio lottare”, ripete più volte, mentre mi racconta di avere quattro figli, due femmine e due maschi (e tre di questi hanno sia un nome italiano, che uno arabo), e mentre scherzando mi ricorda che una mia ex fidanzata è stata sua modella qualche anno fa. “Se essere musulmani significa dover sottacere il fatto che questi terroristi sono un problema da risolvere per sempre, allora io mi dimetto da musulmano. Siccome non è così, siccome quasi tutti la pensano come me, è giusto esporsi. Io ho tanti amici ebrei, e li amo come fossero miei fratelli”. Giusto un mese fa Ben è stato a Miami ospite a casa di suoi amici israeliani per una settimana. “A casa loro, con loro ho mangiato, bevuto, dormito, mi sono divertito, gli voglio bene. Il giorno dopo gli attentati in Israele, ho inviato loro messaggi di condoglianze, e le loro risposte affettuose mi hanno commosso. Tra dieci giorni aspetto Ronen (il suo ospite a Miami) da me a Firenze”. Ben, giustamente, mischia fratellanza e severità: “È ora di dire basta, e di non risultare equivoci: io voglio la pace con i miei amici di religioni diverse, capisco che in Palestina in moltissimi siano sotto scacco di queste bestie e che dunque abbiano difficoltà a esprimere il loro dissenso, la loro diversità, ma io non voglio che si scateni la caccia al musulmano: perché noi la pensiamo quasi tutti cosi su Hamas e gli atri gruppi terroristici che macchiano la nostra reputazione e non ci rappresentano in nulla”. Chiarissimo.
Ascoltando questo fantastico ragazzo, che è un inno alla vita (e anche all’Italia migliore, di cui ieri è stato figlio e oggi è grande protagonista), la commozione mi ha assalito più volte. Ascoltare la entusiastica gratitudine di Ben per l’Italia che lo ha accolto e integrato, curato e salvato, e che oggi è teatro delle sue imprese e del suo animo buono che sparge coraggio e speranza, è stata un’esperienza anche per me. Perché sono storie come queste che riaccendono in noi la speranza concreta di un futuro migliore. Perché sono protagonisti come questi che ti offrono la certezza che salveranno il nostro mondo, miscelando durezza e dolcezza, ambizione e umanità, in un cocktail decisivo. “Il mondo è sufficientemente grande per vivere tutti insieme, abbracciati. E i primi che abbraccio, sono i miei amici della comunità ebraica, in Italia e ovunque”, sospira deciso. Evviva Ben, il suo coraggio, e tutti quelli come lui.
Fonte: Riformista