recensione di Franco La Magna
Gli ultimi anni di vita, dal 1936 al 1938, di Gabriele D’Annunzio, il “vate del fascismo”, ormai vecchio e stanco, cocainomane e in rotta con Benito Mussolini perché contrario al patto scellerato tra l’Italia in camicia nera e la delirante Germania nazista di Hitler e per questo motivo discretamente “sorvegliato” dal federale di Brescia, Giovanni Comini, che viene introdotto nella sua casa del “Vittoriale” dove il poeta si è autoesiliato, amorevolmente accudito dalle sue donne.
Con toni, grigi, decadenti, crepuscolari (ben resi dalla fotografia di Daniele Ciprì) “Il cattivo poeta” (2020, uno dei pochi film in questi giorni proiettati nelle poche sale nazionali, aperte dopo il lockdown), regia dell’esordiente Gianluca Jodice, racconta le delusioni dell’immaginifico cantore del fascismo, simbolo stesso del decadentismo e della “politica come tradimento degli ideali”, in un film noioso e soporifero che un qualche scatto vitale riesce ad avere soltanto nell’incontro del “vate” con il “Duce”, che si manifesta silente (e sempre osannato) in un paio di burattinesche apparizioni pubbliche di ritorno dalla Germania, a cui D’Annunzio sussurra “ti sei scavato la fossa con le tue mani”. Sottotraccia la compassata storia d’amore (conclusa tragicamente) del gerarchetto e la sua donna.
Dubbia operazione retrò, che tende a recuperare l’insofferenza di D’Annunzio per la politica delle alleanze voluta da Mussolini (quasi una sorta di “riabilitazione” alla sua proverbiale “veggenza”), che infine danneggerà soltanto lo stesso Comini, espulso dal partito perché imprudentemente, indirettamente dichiaratosi contrario, sotto l’influsso dannunziano, al patto con Hitler.
Regia latitante e una sceneggiatura che arranca senza mai decollare. Castellitto-D’Annunzio non al meglio delle sue possibilità.