Così parlò Karl Marx: “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”. Queste frasi di grande effetto e profondità furono vergate nell’autunno del 1843 e pubblicate nel febbraio dell’anno dopo. Pare che l’associazione “religione-oppio” fosse già stata usata dal poeta Heinrich Heine, qualcuno dice persino da Kant, con intenti parzialmente diversi, ma è possibile che Marx abbia tratto ispirazione addirittura dal marchese de Sade o dal poeta Novalis.
In ogni caso oggi non pochi marxisti, o sedicenti tali, ritengono che la religione non sia più così influente ed efficace nella sua capacità di plasmare i comportamenti della vita quotidiana di milioni di persone. La sua marginalizzazione sarebbe crescente, specie se parliamo delle nostre società ipersecolarizzate d’Europa e d’Occidente. Anzi, l’occidentalizzazione proprio questo significherebbe: secolarizzazione, fermo restando la peculiarità degli Stati Uniti d’America, culla del concetto d’Occidente e terra in cui il peso della religione continua ad essere rilevante presso ampi strati della popolazione, sia pure in un contesto di estremo pluralismo confessionale.
Sempre nella sua Introduzione a “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, Marx scriveva che “la miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale”. Dunque, ciò aiuterebbe ancor oggi a spiegare il calo di vocazioni e la crisi della fede in Europa, da un lato, e il cospicuo, se non crescente, séguito che invece la religione ha in terre comparativamente più “misere” (almeno per larghi strati della popolazione e almeno fino ad oggi) rispetto al Vecchio Continente.
Sulla marginalizzazione progressiva del ruolo della religione in Europa, e non solo, sono conferma le allarmate parole che l’allora papa Benedetto XVI scrisse in una lettera del marzo 2009: “Oggi, in vaste zone della terra, la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”, aggiungendo che “il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini”. Da un punto di vista marxista, che cosa avrebbe allora sostituito oggigiorno in Occidente la religione mantenendone la medesima funzione oppiacea, ovvero di alienazione rispetto alla realtà di dominio e sfruttamento dei pochi sui molti, di una classe sull’altra? Cosa fornirebbe giustificazione e consolazione per questa “valle di lacrime”? Il calcio, questo sarebbe il surrogato contemporaneo della religione, una sorta di “religione pagana di massa”, come scrive Lucio Garofalo su vari siti, tra cui “Il pane e le rose. Classe capitale e partito”.
Scrive Garofalo: “Allo stesso modo in cui le divinità religiose del passato simboleggiavano le priorità assolute dell’esistenza, oggi i calciatori costituiscono le divinità terrene di un culto secolarizzato, i totem sacri e inviolabili per vaste moltitudini di persone, ormai espropriate di autentici valori spirituali. Il calcio è diventato il culto pagano per antonomasia in un’epoca senza divinità, né idoli, senza riferimenti culturali e principi etici, senza passioni estetiche, artistiche o politiche in grado di impreziosire la vita degli individui, strozzati da una brutale alienazione economica. In tal senso il calcio è diventato una valvola di sfogo, una via di scampo dal soffocante grigiore del vivere quotidiano. Il calcio è una sorta di acquavite spirituale in cui le masse annegano le angosce, i dolori e le inquietudini che le affliggono, come un tempo faceva la religione”.
Il difetto di questa analisi sta nel manico: ossia pensare che ci sia sempre e comunque dietro a tutto un “burattinaio”, che anche questa sostituzione sia una sorta di operazione fatta da una classe, o da una parte – la più lucida ed astuta – di essa, ai danni di un’altra, quella del nuovo proletariato, sfruttato oggi come lo era quello di ieri, il vecchio proletariato industriale ai tempi di Marx. Questi diceva che “l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo”, e l’uomo non è altro che la società e lo Stato che ha creato. Allora il capitalismo finanziario contemporaneo produrrebbe il suo dispositivo che crea felicità illusoria e surrogatoria per le masse di proletarizzati che devono essere distratti dalla dura realtà di dominio e sfruttamento esistenti e rimanere così incapaci di analisi e di quella “critica” che, sempre secondo le parole di Marx, “è il cervello della passione” e che non è tanto “un coltello anatomico, è un’arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare”.
Avete mai ascoltato una qualche trasmissione radiofonica tra le migliaia che popolano la nostra penisola e che sono dedicate quasi 24 ore su 24 al calcio di questa o quella squadra? Provate, ad esempio, a cercare qualche stazione radio di mattina (e pomeriggio) a Roma o a Firenze, durante tutto l’anno, e sentirete parlare della ACS Roma o della Lazio o della Fiorentina con la stessa serietà e gravità di pensieri con cui si sarebbe un tempo parlato del problema della teodicea nel cristianesimo o della scala mobile nel dibattito politico e sindacale. Potrete ascoltare fior di maschi adulti, giovani di mezza età e attempati, che discettano per ore e ore dell’ultimo acquisto di quello o quell’altro giocatore. E senti gli osanna e i peana al giocatore, ma ancor più ai dirigenti e ai proprietari, ormai imprenditori prestati al calcio, per aver sborsato diversi milioni di euro al giocatore e alla società di provenienza. “La vittoria dello scudetto è assicurata!”, e via giù con lodi e preghiere, voci rotte dall’emozione per una campagna acquisti che rende un’intera cittadinanza orgogliosa della propria appartenenza. L’acquisto del centravanti tedesco Mario Gomez da parte della Fiorentina ha messo in scena questo eterno spettacolo, già visto qualche mese fa con l’arrivo di Mario Balotelli al Milan, e potremmo continuare all’infinito esemplificando tra presente e passato, recente e remoto.
Sbornia collettiva? Calcio come oppiaceo? La mia impressione è diversa. Se marxianamente l’uomo fa la religione, così l’uomo fa il calcio, ma non nel senso che l’uomo oppressore lo crea e divulga ai fini di narcotizzare ogni potenzialità di insubordinazione, ribellione o addirittura rivoluzione, né che l’uomo oppresso lo alimenta e se ne fa custode per il bisogno che ha di lenire la propria condizione di miseria e di sudditanza. Per addobbare di fiori, infiocchettare la propria catena, e sentirla, o illudersi di sentirla, meno pesante e stringente. Credo invece che proprio nel calcio la natura umana si manifesti nella sua nudità e presa diretta con la realtà. Non l’intera natura umana, ma senz’altro buona parte di quella maschile. Ne viene fuori la più radicale confutazione di ogni antropologia politica democratica, solidale e anticapitalistica. Il tifoso di calcio dimostra in modo palmare come il maschio non creda all’eguaglianza, principio cardine della democrazia, ma piuttosto ami una forma di competizione che poco si addice a criteri di solidarietà, e semmai intende fare critica à la Marx, nel senso di voler vedere annientato il proprio avversario. Al confronto della tifoseria calcistica, il tremendo neoliberismo capitalista è una mammoletta. Il calcio appassiona, emoziona, mobilita, trascina e travolge masse di individui anche perché si avvale di quelle caratteristiche che rendono lo sport particolarmente, e giustamente, appetibile per gli esseri umani, anzitutto di sesso maschile: ad esempio, quella persistente attitudine ludica che contraddistingue i maschi sin dalla più tenera età, e che abbandona gran parte delle femmine assai prima, mentre non scompare quasi mai dall’orizzonte maschile. È, questa, una nota alquanto positiva della natura maschile ma che nel calcio assume gli aspetti più passivi ed eccessivi.
Della vera dimensione sportiva, infatti, nel calcio contemporaneo è rimasto ben poco. La gran quantità di denaro circolante e il conseguente business che si è creato attorno ne hanno snaturato l’originaria dimensione di sana competizione all’insegna di valori positivi come la ricerca del miglioramento di sé e il rispetto degli altri, accomunati da medesima passione e medesimo sacrificio. Tutto questo si ritrova ancora negli sport “poveri”, dall’atletica leggera al rugby, dal judo al canottaggio, in tutte quelle attività sportive in cui la fatica impiegata è inversamente proporzionale al grado di riconoscimento pubblico e monetario raggiungibile. Eppure è in questi sport che la dimensione dell’homo ludens si sublima e concilia con tutte le altre forme della humanitas. Nel calcio tutto questo si è perso, anche a livello giovanile, dove l’ansia da prestazione contagia per primi i genitori, che fanno di tutto per falciare nei figli ogni residuale inclinazione autenticamente sportiva. Ho conosciuto casi di ragazzini calciatori che si sono ribellati a padri che intimavano loro di dare, durante le fasi più concitate della partita, gomitate agli avversari per intimidirli e piegare a loro favore il risultato.
Il senso del clan che anima il tifoso sfiora la partigianeria più ottusa e, al tempo stesso, nel calcio professionistico la realizzazione (anzitutto monetaria) del singolo va oltre lo spirito di squadra e la fedeltà ai colori societari e alla stessa tifoseria. Nel calcio ciò che di bello e buono vi è nello sport viene inquinato, e ciò che di brutto e cattivo vi è fuori dello sport vi viene introiettato. Il calcio piace moltissimo a quel che Marx avrebbe definito l’uomo oppresso, il quale, però, vuole il calcio non come oppiaceo ma come eccitante, qualcosa che gli consenta di sognare non una società di eguali ma, al più, il rovesciamento dei rapporti di forza esistenti, dove lui opprime chi oggi l’opprime. Nietzsche spiega il boom odierno del calcio assai meglio di Marx.
Detto ciò, e nonostante il grande circo mediatico e finanziario che vi gira attorno, il calcio è voluto consapevolmente da una natura umana che, in larghissima parte, specie maschile, aborrisce tanto la democrazia quanto il liberalismo, che nella loro sintesi indicano una conflittualità aperta ma entro il rispetto delle regole e un apprezzamento per la diversità dei punti di arrivo alla luce di un’eguaglianza nelle condizioni di partenza. Il calcio contemporaneo, anzitutto professionistico, andrebbe criticato perché sempre più lontano dalla sua originaria dimensione sportiva, mentre lo sport è ciò che più si avvicina alla metafora di ciò che anima una buona società.
D’altro canto, se un giocatore come Gomez o Balotelli garantisce decine e decine di gol a stagione ha un valore di mercato elevato, e come tale il suo prezzo lievita nel libero gioco della domanda e dell’offerta. Quel che si vuole qui notare è come la stessa persona che da tifoso di calcio ama il mercato, in politica e nell’urna spesso vota contro di esso, magari in nome di quel Che Guevara la cui effigie porta sulla maglietta o sugli striscioni in Curva Sud. È comprensibile e legittimo che ogni persona aspiri ad essere valutata sulla base del proprio merito e di quel che può garantire in più ad una potenziale “squadra”, sia essa azienda privata o pubblica amministrazione, e di essere valorizzata di conseguenza, sul piano di ruoli e funzioni assegnate e di compenso retribuito. Nel calcio si esprime questa legittima esigenza, in politica – quella italiana, in specie – sembra di no, viste le preferenze per sussidi, assistenzialismo statale e corporativismi clientelari.
Se da queste parti ci si bea di avere presidenti pronti a spendere decine e decine di milioni di euro per fare la squadra da Champions League, in Brasile si sono avute nel giugno scorso manifestazioni di protesta fuori dagli stadi che ospitavano la FIFA Confederations Cup. I manifestanti denunciavano gli sgomberi di numerose comunità, l’esistenza di una rete internazionale di traffico di persone e le speculazioni finanziarie riguardanti la costruzione di opere in relazione ai grandi eventi che vedranno coinvolto il Brasile tra Mondiali di calcio ed Olimpiadi da qui al 2016. Il Laboratorio de Politìcas Pùblicas dell’Università federale di Cearà ha calcolato che la spesa totale per le opere si colloca attorno a “70 e 100 miliones de reales, che lo colloca al primo posto come torneo più costoso della storia”. Nelle sue dichiarazioni ufficiali, il presidente Dilma Roussef ha affermato che non verranno spesi soldi provenienti da fondi nazionali. Il calcolo fatto dall’università mostra però che circa il 90% della somma viene finanziato dai governi statali e dal governo federale. “Il presidente ha mentito spudoratamente in faccia a tutti i brasiliani. Dire che non ci sono investimenti pubblici è una presa in giro. Gli stadi vengono costruiti grazie a risorse pubbliche, gran parte provenienti dalla Banca Nazionale per lo Sviluppo Sociale, dalla Cassa Economica Federale e dai governi municipali e statali”, precisa André Lima Sousa, rappresentante dei comitati che contestano la scelta di organizzare i campionati in Brasile.
Che l’antropologia brasiliana, e latinoamericana, sia meno sensibile di quella nostrana al richiamo dei valori belluini e clanici del calcio? Non so, ne dubito, anche se chi ama Papa Francesco potrebbe volerci trovare qualche conferma del presunto nuovo corso in Vaticano. Infine, per chi ancora parla di “oppio dei popoli”: non dimentichi mai quanto la storia insegni che la pianta della rivoluzione ha sempre avuto più di un seme religioso.