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I SERVIZI PUBBLICI NEL DDL CONCORRENZA

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L’obbligo previsto per gli enti locali di “dimostrare le ragioni del mancato ricorso al mercato” presuppone che il mercato, pregiudizialmente, sia in grado di assolvere il compito di prestare servizi pubblici locali in modo migliore di quanto lo siano le società in house. Ma l’essenza del problema non sta nel conflitto tra azienda pubblica e azienda privata, bensì nel disegnare una forma di conduzione strettamente legata alla finalità di servizio pubblico e una conduzione gestionale legata a rigorosi principi di economicità

di Renato Costanzo Gatti

L’art. 6 del ddl concorrenza punta a garantire maggiore qualità ed efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici locali, prevedendo una disciplina preordinata a definire un quadro regolatorio più coerente con i principi del diritto dell’UE. Attenzione viene posta anche al trasporto pubblico locale, comprendendo pure quello non di linea. Vengono introdotte norme finalizzate a ridefinire la disciplina dei servizi pubblici locali, per rafforzare la qualità e l’efficienza e razionalizzare il ricorso da parte degli enti locali allo strumento delle società in house, anche mediante la previsione dell’obbligo di dimostrare, ad opera degli enti stessi, le ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma in house dal punto di vista finanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni tramite detto sistema di auto-produzione.
L’obbligo previsto per gli enti locali di “dimostrare le ragioni del mancato ricorso al mercato” presuppone che il mercato, pregiudizialmente, sia in grado di assolvere il compito di prestare servizi pubblici locali in modo migliore di quanto lo siano le società in house.
Ma la presunzione che il mercato sia pregiudizialmente migliore della gestione da parte di società degli enti locali deve tener conto che ci troviamo di fronte a servizi da prestarsi in condizioni di quasi-monopolio, condizione insita nella natura stessa del servizio prestato. È vero che con il regime concessorio si potrebbe creare una specie di concorrenza tra le imprese private che si candidano a fornire quel servizio, ma è altrettanto vero che questo tipo di concorrenza è strutturalmente diverso da quello che si svolge nel mercato.
Va aggiunto che l’obiettivo primario di un servizio pubblico è la soddisfazione dei cittadini utenti, per cui le scelte saranno sempre fatte in coerenza con quell’obiettivo, mentre nel servizio pubblico svolto da un privato l’obiettivo primario è il profitto né potrebbe essere diverso stante la natura del capitale. Ecco che allora il concessionario privato opererà le sue scelte in funzione del profitto cercando di escludere dal suo servizio quegli utenti che per ragioni fisiche sono più costosi da raggiungere e cercherà di investire in quei bacini di utenza che si prospettano come più redditizi. Certo la concessione vincolerà il concessionario a rendere i servizi equamente tra tutti i cittadini, ma ciò non toglie che le scelte del concessionario saranno sempre in prima istanza in conflitto con le finalità della concessione.
Ma c’è un ulteriore elemento che rende poco praticabile la semplificazione alla Draghi insita in questa “liberalizzazione” dei servizi pubblici, si tratta del tema sollevato recentemente dall’Istituto Bruno Leoni – re del liberismo nazionale: “Specialmente nel caso di attività ad alta intensità di manodopera (come la raccolta dei rifiuti o il trasporto pubblico di linea su gomma) l’eventuale vincitore di una gara sarebbe soggetto alla clausola sociale, che impone non solo di rilevare tutto il personale dell’uscente, ma addirittura di farlo alle stesse condizioni. L’intangibilità del costo del lavoro e – nei fatti – anche della sua organizzazione rischia di ridurre considerevolmente, se non addirittura di annullare, i benefici delle liberalizzazioni, anche se esse dovessero concretizzarsi.
Se davvero vogliamo che l’immenso capitale politico necessario a sostenere la riforma non vada sprecato, allora, bisogna giocare al rialzo: benissimo le deleghe proposte, ma serve il coraggio di andare oltre e rivedere parallelamente la clausola sociale.”
Ecco una immediata risposta del capitale che evidenzia la contraddizione che il disegno di legge sulla concorrenza porta con sé.
Non sono pregiudizialmente favorevole alle imprese municipalizzate, anche se ritengo che la forma pubblicistica sia più consona alle finalità del servizio da portare ai cittadini, sono anzi convinto che troppo spesso la ricerca del consenso (leggasi ricerca di voti tra gli elettori) porta ad una specie di corruzione dell’ente locale che fa prevalere la tendenza ad assunzioni di favore piuttosto che dar la precedenza ad una sana conduzione economica dell’impresa.
Ma sono altrettanto convinto che un simile clima di corruzione si instauri tra candidati concessionari e decisore politico dell’ente locale al momento della scelta del vincitore o in occasione del rinnovo dei bandi.
Ecco che allora il conflitto non è tra azienda pubblica e azienda privata con scelta apodittica (come, per esempio fa il ddl in discussione) di una o dell’altra forma di conduzione, ma il succo del problema sta nel disegnare una forma di conduzione strettamente legata alla finalità di servizio pubblico e conduzione gestionale legata a rigorosi principi di economicità.
Ci può essere certamente una conduzione con il regime concessorio, ma questa conduzione richiede un capitolato stringente e severo nel garantire che tutti i cittadini possano godere del servizio, controlli campionari frequenti sull’osservanza dei capitolati, esclusione di qualsivoglia conflitto di interesse tra funzionari pubblici e concessionari, accurata revisione indipendente dei bilanci annuali delle concessionarie nella permanente convinzione che le finalità della concessionaria sono in intimo contrasto con le finalità del servizio oggetto della concessione.
Ci può essere certamente una conduzione con il sistema in house, ma questa conduzione non deve essere ispirata all’utilizzo delle aziende in house come veicoli fuori bilancio per sfuggire ai vincoli contabili, e deve porre molta attenzione all’eccessiva frammentazione nella fornitura del servizio, che può essere mitigata definendo ambiti minimi per l’affidamento, come si sta cercando di fare per la distribuzione locale del gas e l’acqua, definendo una dimensione critica minimale. Naturalmente, non è ovvio quale sia la dimensione “ottima”, ma certo essa non coincide con le migliaia di aziende, spesso di piccolissime dimensioni, che attualmente svolgono i servizi in modo inefficiente e costoso.
Ritengo perciò molto semplicistico il ddl draghiano, mentre il problema potrebbe essere affrontato in modo più maturo.