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I paradossi del devastante Trump 2

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Di Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Spesa semper certa est: copertura numquam. E se quello di indicare coperture precarie è un brutto vizio dell’opposizione, diventa un peccato mortale quando è commesso dal governo. Pur in un quadro di generale prudenza sui conti pubblici, la legge di Bilancio trova circa 1,6 miliardi di euro all’anno per il triennio 2025-27 scommettendo sugli effetti espansivi della manovra. Una pratica che la Banca d’italia ha definito “contraria alla prassi” e l’ufficio parlamentare di bilancio (Upb) “non usuale”.
Le misure di politica economica previste – dice il Mef e certifica la Ragioneria generale dello stato (Rgs) – avranno l’effetto di stimolare la crescita, quindi l’erario potrà contare su un gettito aggiuntivo. E’ possibile che la premessa sia giusta: ma da lì a quantificarne gli effetti, cioè a stimare il moltiplicatore della politica economica del governo, ce ne passa. Tant’è che la Banca d’italia e l’upb hanno rilevato l’anomalia in audizione. “Contrariamente alla prassi – nota Palazzo Koch – la manovra include tra le fonti di copertura le maggiori entrate che dovrebbero derivare dal miglioramento economico conseguente all’espansione di bilancio rispetto alla legislazione vigente”. Mentre l’upb sottolinea che “sono considerati ai fini della copertura gli effetti della retroazione fiscale, in controtendenza rispetto alla prassi precedente che per prudenza non contabilizzava tali impatti”. Nell’ultimo decennio si registrano solo due precedenti: la legge di Bilancio per il 2017 (governo Renzi) e quella per il 2021 (governo Conte II), ma in quest’ultimo caso la deviazione dalla prassi è giustificata dall’eccezionalità del crollo pandemico del pil nel 2020 e dal conseguente e facilmente prevedibile rimbalzo nel 2021.
Va riconosciuto che Bankitalia e Upb, pur segnalando la novità, non la enfatizzano, probabilmente perché il valore è contenuto. Tuttavia, ci sono due aspetti rilevanti: uno tecnico e uno politico. Quello tecnico riguarda il cambio di passo rispetto al passato: di per sé può apparire secondario, se non fosse che arriva a valle di una serie di errori di previsione di Mef e Rgs. Il più clamoroso è ovviamente la quantificazione del Superbonus (con un errore di circa 150 miliardi), ma non è l’unico: il gettito dell’imposta sugli extraprofitti energetici è stato un terzo del previsto, mentre l’imposta sostitutiva del 3 per cento sul maggiore valore attribuito ai beni rivalutati sarebbe costata decine di miliardi in più se non fosse stata corretta in extremis dal governo Draghi.
Insomma: dopo una fase di eccessi, bisognerebbe ripristinare una condotta iper-prudenziale, non prendere una scorciatoia spericolata. Ma proprio questo conduce alla questione politica.
Iparadossi del Trump 2 si conoscono. Un movimento devastante per la democrazia liberale della tradizione americana prevale contro quella forza del sistema, garantismo e tolleranza, che è anche la sua debolezza quando le mitologie ribelliste e populiste mettono in discussione l’establishment che si rivela impotente. Se uno incita alla rivolta del 6 gennaio, la protegge e difende fino alla promessa di grazia per gli assalitori cornuti del Campidoglio, e non paga alcun dazio nonostante sia stato smascherato da ogni parte, compresa la propria, la sua posizione di forza emerge chiara e forte. Vince sui progressisti inquinati dal wokismo, vince sui residui della tradizione conservatrice, sequestrando a beneficio del suo movimento e del suo culto personale il Partito repubblicano. Il titolare della rappresentanza testosteronica maschile prende il 46 per cento del voto femminile, mentre il maschio bianco risulta l’unico collante che ha tenuto della sua avversaria democratica, donna e coloured. Lo spregiatore della porosità dei confini e il fabulatore del pet-cannibalismo dei neri di Haiti è eletto da massicce ondate elettorali di latinos, black e altri immigrati. Nel paese classico dell’aborto come diritto, del movimento lgbtqi+, delle politiche gender affirmative, dei campus scatenati pro Palestina, l’opposto di tutto questo si afferma anche nel voto popolare e tra le minoranze “oppresse”, arabo-americani compresi. L’amore protezionista per i dazi sulle importazioni può costare caro all’economia americana, in particolare al potere d’acquisto, ai salari e agli investimenti.

Fonte: Il Foglio