di Augusto Lucchese
La Sicilia, a buon diritto, ha sempre goduto della felice nomea di “terra promessa” del turismo. Il clima temperato, gli stupendi paesaggi, gli antichi monumenti, l’inestimabile patrimonio archeologico e artistico, il mare invitante e il cielo azzurro, hanno rappresentato e rappresentano un richiamo cui non è facile sottrarsi, quasi si trattasse di un misterioso e potente magnetismo.
Le antiche civiltà insediatesi in Sicilia dal IX al VII secolo a. c., particolarmente quella fenicia e greco corinzia – civiltà già affermate e vitali quando ancora i “sette colli” romani non erano che incolta campagna – hanno lasciato preziose vestigia nei territori ove nacquero le prime “colonie”, talvolta in siti poco conosciuti e in piccoli borghi dell’entroterra, magari arroccati sui costoni d’impervie montagne.
L’Isola, crocevia del Mediterraneo, fu sempre considerata, tuttavia, “terra di conquista”. Cartaginesi, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, e chi più ne ha più ne metta, senza dimenticare i Piemontesi dei Savoia (con il bene placido del “liberatore” Garibaldi), giunsero sul suo suolo, pugnandovi in lungo e in largo, bivaccandovi da padroni, opprimendo, sfruttando e depauperando le sue risorse.
I vari periodi di ininterrotta “occupazione”, hanno sì lasciato in eredità insigni monumenti, sontuosi palazzi, possenti castelli e fortilizi, Chiese e Monasteri, ma hanno anche creato i presupposti per la notevole radicata arretratezza strutturale e sociale che ancora oggi condiziona gran parte della società isolana, a prescindere dal retaggio delle pesanti sofferenze e dei lutti infiniti.
Sin dall’epoca dell’Impero romano (che con la violenza delle armi si sovrappose alle fiorenti e progredite comunità sorte e affermatesi nell’Isola, quali Siracusa, Leonzio, Morgantina, Naxos, Gela, Agrigento), la Sicilia ebbe a subire, volente o nolente, soprusi e vessazioni d’ogni tipo.
Le invasioni barbariche apportarono altri cruenti sconvolgimenti che ebbero gravi conseguenze sulla struttura antropologica dell’Isola e si può ben dire che pace e tranquillità non riuscissero più a trovarvi accoglienza.
Ciò accadde anche nel corso del successivo lungo periodo di sottomissione all’Impero di Bisanzio sin quando, agli albori del IX secolo, la Sicilia cadde sotto il potere dei Califfati mussulmani dell’Africa settentrionale che avevano i loro centri di potere negli attuali territori di Tunisia, Algeria e Marocco.
Non sarebbe impresa da poco soffermarsi dettagliatamente su quanto avvenne in quei secoli, così come non sembra consono, per ovvie esigenze di brevità, approfondire gli avvenimenti che segnarono i vari periodi storici, da quello arabo (dall’ ‘827 al 1090), a quello normanno di Ruggero I (1091), al breve scorcio temporale del casato di Federico II di Svevia (1197 – 1268), agli oscuri decenni del malgoverno Angioino (culminato con i “Vespri Siciliani” del 1282), per giungere agli Aragonesi (dal 1302 al 1479) e, successivamente, alla lunghissima dominazione spagnola (dal 1479 al 1713).
Il lungo periodo della dominazione aragonese e spagnola (complessivamente circa quattro secoli) fu caratterizzato dall’incontrastato potere dei “viceré” e dal consolidamento dell’opprimente dominio locale delle varie “baronie” che traevano forza e ricchezza dallo sfruttamento dei grandi feudi. Ciò avvenne specialmente nei decenni precedenti la guerra civile spagnola del 1475 che portò alla sostanziale assegnazione del Regno di Castiglia/Leon a Isabella di Castiglia e alla conseguente fusione con il Regno Aragonese di Ferdinando II, succeduto al padre Giovanni II. Ciò avvenne anche in dipendenza del fatto che dal 1469, pur se ancora solo pretendenti ai rispettivi troni, i due futuri regnanti si erano uniti in matrimonio.
Si affermarono le “caste” e i “potentati locali”, fra cui alcuni di stampo clericale che avevano il loro punto di forza nei duri e inumani sistemi dell’inquisizione.
Gli eventi politici e militari europei (guerra di successione del 1702, intrapresa dalla coalizione inglese, olandese e austriaca contro la Francia di Luigi XIV che a quei tempi dominava anche la Spagna), il trattato di Utrecht del 1713 e la pace di Rastatt del 1714, costrinsero gli spagnoli ad abbandonare la Sicilia, ma l’andirivieni delle soldatesche “straniere” non ebbe fine.
I francesi di Filippo V di Borbone, i piemontesi di Vittorio Amedeo II, gli austriaci di Carlo VI, si affrontarono sul suolo siciliano in ulteriori “cruenti scontri”, non tanto per portare pace, libertà e dignità al popolo isolano, quanto per affermare le rispettive mire egemoniche.
Sta di fatto che i vari “occupanti” succedutisi nel tempo, non furono mai teneri, di massima, verso i siciliani, cui imposero leggi, “editti” e balzelli ingiusti e gravosi. Abusi, spoliazioni e vessazioni, divennero tasselli di un brutto mosaico che, per via di sempre nuove angherie, andava ingrandendosi a dismisura.
Divenne ben difficile opporsi in maniera legalitaria ad un tale sistema di potere e, in funzione delle sapute frequenti malversazioni, dei tirannici abusi di potere, della distorta amministrazione della giustizia, della imposizione di estorsivi tributi, fu quasi naturale che nascessero talune organizzazioni “segrete” che, operando nel più impenetrabile segreto e nelle oscure ombre della notte, ricorrevano a metodi implacabili e drastici, talvolta violenti, ritenendo che quello fosse il solo valido modo di reagire allo strapotere dei despoti istituzionali di turno e dei tiranni locali. Fra esse, ben presto, ebbe a primeggiare quella dei “Beati Paoli”, una misteriosa congregazione di “tremendi giustizieri incappucciati”, le cui clamorose gesta, in parte arricchite dalla fantasia dell’autore, furono romanzate dal palermitano Marchese di Villabianca. Si narra che i “Beati Paoli”, per difendere i deboli e i poveri, gli oppressi e le vittime, oltre che per rintuzzare multiformi angherie e ingiustizie, avessero istituito una sorta di tribunale che emetteva inappellabili “sentenze”.
Molte fonti storiche fanno risalire già alla metà del XII secolo, nel periodo della dominazione normanna, la nascita delle prime organizzazioni di stampo segreto. Esse, poi, perdurando il clima d’insicurezza e la carenza di una equa giustizia sociale, trovarono nel tempo facile sviluppo, particolarmente nelle sperdute lande dell’interno. Presero campo i sommari metodi della cosiddetta “onorata società”, gestita sovente da autoritari personaggi di spicco cui nessuno osava opporsi per non incorrere in drastiche ripercussioni che avrebbero potuto anche implicare una irreversibile “condanna capitale”. Si affermò, così, la cosiddetta “mafia giustiziera” che, tuttavia, niente aveva a che spartire con la vindice ma idealizzata azione dei “Beati Paoli”.
Nell’ambito della società contadina e urbana, a fronte dell’affermarsi di un tale potere occulto e per il timore di ritorsioni di varia natura, maturò la convinzione che l’unica condotta plausibile fosse quella d’affidarsi alla primordiale regola di starsene il più possibile in disparte, testardamente “zitti”. “Nienti sacciu, nienti vitti, nienti sintii”.
Prese corpo e si diffuse, in tal maniera, la mentalità della “diffidenza”, della “sottomissione” (con assodata rinunzia ai diritti personali), dell’ “omertà”. Un vero e proprio costume di vita che s’è profondamente radicato nel tessuto sociale e ha determinato, nell’ambito di taluni strati della composita società siciliana, profondi segni caratteriali, ancora oggi ben percepibili, indipendentemente dal ceto sociale d’appartenenza o dall’essere inseriti in specifici settori civici, professionali e lavorativi.
Si può ben affermare che opportunismo e individualismo, poco senso civico, scarsa convergenza verso comuni ideali, derivino in gran parte da quell’angoscioso periodo d’insicurezza soggettiva e collettiva. Caratteristiche purtroppo difficili da modificare che, per molti versi, rappresentano l’acre frutto di tanti secoli di vessazioni, di sottosviluppo sociale, di bigottismo religioso. Nella misura in cui tuttora permangono nella società isolana, tali non trascurabili aspetti continuano ad ostacolare il cammino verso nuove frontiere di sviluppo e verso più idonei schemi di convivenza civica e politica, ritardando l’emergere di una forte aspirazione a più concrete e migliori forme di autonomia.
Solo pochi sporadici episodi (i Vespri siciliani del 1282, i moti del 1848, taluni limitati riferimenti alla controversa avventura garibaldina del 1860, il movimento dei “fasci siciliani” dal 1889 al 1894, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia del 1944), hanno dato momentanea vita a diversi scenari. S’è perpetuata, di contro, una perniciosa forma di supina sottomissione a quei poteri “extra isolani” che esprimono e perseguono, risaputamente, interessi politici ed economici contrastanti con quelli dei siciliani. Agli albori del terzo millennio la Sicilia continua a soffrire d’atavici malesseri che ingiustamente la pongono in uno stato di obiettiva difficoltà, specie in tempi di “europeismo” e di “globalizzazione”.
Non è possibile giustificare, in ogni caso, quei prezzolati operatori dell’inquinato mondo dei “media” che non sanno rinunziare al triste vezzo di blandire, magari in funzione di scopi essenzialmente tornacontistici, i poteri costituiti o i “magnati” del variegato e non sempre trasparente mondo della finanza e dell’industria. A parte, poi, la diffusa esitazione o rinuncia a controbattere adeguatamente l’ingiusta diffusione (che talvolta proviene da qualche nostrano discutibile scrittore di cassetta) dell’immagine di una Sicilia bacata, “culla di briganti”, regno della “mafia”, fabbrica di “fuorilegge da esportazione”.
In un certo ambiente giornalistico e letterario sembra invalsa, purtroppo, una patologica forma d’autismo culturale e non ci si rende conto che, falsando la ben diversa realtà isolana, non si fa che incentivare pregiudizi e luoghi comuni. Sono pesanti e in alcuni casi irreversibili i danni che tale indegna autolesionistica condotta ha arrecato ed arreca al civile e operoso popolo di Sicilia.
Non è pensabile che taluni autori non siano consapevoli del fatto che le loro “opinioni” pervengono, oltre che a persone in grado di rintuzzarle ed eventualmente confutarle, anche all’amorfa massa della “gente comune” che ne trae facili ed errate informazioni e convinzioni. È delittuoso, in ultima analisi, che giornali, libri e televisione continuino ad essere veicolo di disinformazione o cassa di risonanza d’aberranti “teoremi”, specie quando sono frutto di manifeste finalità di lucro. Oggi si avverte nell’isola un risveglio forte e diffuso della coscienza civile contro la mafia e questo aspetto occorre maggiormente valorizzare più che far scorrere un fiume d’inchiostro pieno di stereotipi a fronte dei “delitti di mafia” o della più o meno apparente collusione della stessa con taluni ambienti della politica. Molti dei fatti attribuiti alle variegate “cosche” sono fenomeni di pericolosa e perniciosa “criminalità organizzata”, del resto esistenti, purtroppo, in ogni altra parte d’Italia, come del resto in Europa e nel Mondo.
Non è superfluo, in conclusione, ricordare ai viscidi detrattori della Sicilia (qualcuno, malauguratamente, anche d’origine isolana) che, sin da tempi antichissimi, essa ha dato i natali ad un numeroso stuolo di uomini eccelsi, affermatisi in tutti i settori dello scibile umano, dalla matematica alla fisica, dalla poesia alla letteratura, dalla scultura alla pittura e, perché no, anche dalla sociologia alla politica.
Non esiste, tuttavia, solo il corposo nucleo degli sciocchi denigratori della propria terra e di contro, per fortuna, s’evidenzia anche un numeroso stuolo di scrittori, letterati, pubblicisti, di uomini di scienza e di cultura, che hanno espresso e seguitano ad esprimere positive e obiettive valutazioni della Sicilia. L’Isola è per loro un “olimpo di eroi”, una terra “ove cresce con pari rigoglio l’azione e la virtù, l’istinto e la fantasia”, un ambiente naturale in cui è possibile “avvertire e apprezzare i profumi più intensi, gustare i frutti più succulenti, ammirare gli scenari più luminosi”.
La Sicilia è giustamente presentata come un “qualcosa di straordinario” e ai veri siciliani è attribuita la capacità d’esprimere, con “occhi ardenti come l’Etna”, l’idolatria per tutto ciò che è bello”, pur non sottacendo il fatto che la coscienza di una gran massa di siciliani è tuttora frenata da “un nebuloso retaggio d’incredibili superstizioni, di radicati pregiudizi, di sfioriti miti, di latenti frustrazioni”.