di Pasquale Pasquino
Il tema dei limiti nel tempo dei mandati elettorali è da sempre una questione rilevante della dottrina costituzionale.
L’Assemblea nazionale costituente francese (1789-91) decise prima di sciogliersi di vietare la candidatura dei suoi membri per le elezioni alla prima Assemblea legislativa. Fu una cattiva idea perché privò quest’ultima degli straordinari autori della costituzione e favorì la deriva verso il radicalismo giacobino. Il caput mortuum del dibattito sui limiti al mandato elettorale (lasciando stare la comoda retorica della sovranità popolare che viene servita demagogicamente in tutte le salse) è che essa fa saltare la base stessa della legittimità elettorale e cioè che l’attore politico eletto, alla fine del suo mandato, è responsabile dinanzi agli elettori – la accountability. In assenza della quale l’eletto è solo un re a scadenza.
Se però si ragiona sulla rieleggibilità del capo del governo a partire da una analisi comparata non si può introdurre confusione del tipo: confrontiamo il peso dei trattori con quello dei grossi mammiferi. Mettere in bilancia un sindaco, un giudice costituzionale, il presidente austriaco, quello americano e Angela Merkel o Tony Blair serve solo a produrre rumore. Se ci sono numeri si può certamente, con la pretesa di produrre sapere scientifico, confrontare tutto con tutto: la durata media della vita oggi in India con la durata media degli anni di prigione per i reati penali nei codici di diversi paesi. Ma per lo più non serve a niente.
Nel caso del dibattito italiano presente confrontare la durata e la rinnovabilità del mandato del presidente austriaco con quella di un ordinario primo ministro è di limitatissimo interesse, poiché è assolutamente necessario tener conto della differenza di poteri fra i due titolari del mandato in questione: molto più importante per lo stesso potente primo ministro austriaco che per il debole presidente.
L’aspetto che sembra più rilevante e che va preso in conto è che un organo con rilevanti poteri di governo, come il presidente americano può ragionevolmente essere astretto a limiti temporali del suo mandato (come ha deciso il 22 emendamento della Costituzione americana) poiché esso per la durata di 4 anni non può essere sfiduciato né dal Congresso né dai cittadini elettori. E per quanto vi sia una rottura del principio della accountability – poiché un presidente che ha ben governato non può essere rieletto per una terza volta – i limiti temporali del suo mandato fanno parte della tradizione politica occidentale che vuole limiti all’esercizio di un potere molto grande.
Se parliamo invece del premier britannico e del Cancelliere tedesco, i capi di governo fra i più potenti delle democrazie liberali, può stupire che non vi siano term limits né per l’uno né per l’altro, se si tiene inoltre conto del fatto che in Germania Helmut Kohl e Angela Merkel hanno ricoperto la loro carica elettiva entrambi per ben sedici anni. Certo, ma in questi casi si tratta di leader politici costantemente sotto il controllo del Parlamento e dei loro partiti che possono censurare il loro operato e rimuoverli dalla loro carica, si pensi per la Gran Bretagna a Margaret Thatcher, a Tony Blair, o a Boris Johnson. Con i limiti del voto di sfiducia costruttivo, che protegge il governo dalla coalizione che lo sostiene, lo stesso accade per il Cancelliere tedesco.
Se in Italia dovesse essere introdotta l’elezione diretta del premier invece dell’investitura parlamentare, le due insieme sono un bell’esempio di cangatto (copyright Giovanni Sartori) costituzionale, il capo del governo rassomiglierebbe al presidente americano, con la singolare variante che la sua sempre possibile dismissione da parte del parlamento, ovvero della sua maggioranza, sarebbe una forma di suicidio collettivo, assistito dalla norma costituzionale del simul stabunt simul cadent.
È comprensibile che in questo caso – evitando di confrontare il sindaco di un piccolo comune con il capo del governo di un grande paese (cioè dal punto di vista dei poteri e delle funzioni, api e leoni) – il limite americano dei due mandati presidenziali abbia un senso che, invece, perde nel caso di un capo del governo responsabile dinanzi al Parlamento che lo ha scelto.
Se si elimina la responsabilità del premier dinanzi all’assemblea rappresentativa (salvo in caso di suicidio della stessa) e il capo del governo viene direttamente investito dei suoi poteri dagli elettori, ella o egli diventa logicamente responsabile dinanzi a questi. Responsabile ma solo ogni cinque anni, il giorno in cui i cittadini esercitano la loro libertà di voto – un po’ troppo di rado, osservava per una volta a ragione Rousseau, che non amava i parlamenti e non capiva che il controllo parlamentare sul governo è il principio fondatore del governo rappresentativo (vulgo, diceva Bobbio, democrazia), a differenza dei governi extraparlamentari a investitura diretta.
Liberta’ Eguale