Il procuratore di Milano, dopo aver esaminato le posizioni di: 28.836 fattorini di Foodinho-Glovo; 8.523 di Uber Eats; 3.642 di Just Eat; 19.510 di Deliveroo, ha chiesto la regolarizzazione contributiva e dei contratti di 60mila lavoratori
AGI – Secondo le stime delle società del settore, il mercato del food delivery in Italia nel 2020 ha toccato i 900 milioni di euro. Quasi il doppio dell’anno precedente, quattro volte quello del 2018. Un business in forte crescita quindi, seppur relativamente giovane, nato durante il boom delle startup tecnologiche della Silicon Valley del 2010 e arrivato in Italia cinque anni dopo.
In base agli ultimi report pubblicati dall’Inps e dalle divisioni italiane delle società di consegna di cibo a domicilio prenotato via app, nel 2019 si contavano circa 11.000 rider. Oggi il procuratore di Milano, Francesco Greco, ha chiesto la regolarizzazione contributiva e dei contratti di 60.000 lavoratori per quattro delle principali società del settore che lavorano in Italia. Quasi sei volte in più le ultime stime disponibili, e che comunque riguardavano tutte le società del settore attive nel nostro Paese: 12, secondo un report di Comunicatica del 2018.
In dettaglio, la procura ha esaminato le posizioni di: 28.836 fattorini di Foodinho-Glovo; 8.523 di Uber Eats; 3.642 di Just Eat; 19.510 di Deliveroo. Le posizioni lavorative esaminate riguardano gli ultimi 4 anni di queste società in Italia, ma, al netto di quanti avranno smesso di lavorare in questo periodo, rapportando questo dato a quello del 2018 è evidente l’esplosione di questo tipo di lavoro nell’ultimo periodo, accentuato dalla crisi pandemica che ha richiesto sempre più addetti e consegne.
Le quattro società alle quali Greco ha fatto notificare i verbali che imporranno la trasformazione dei contratti dei rider da lavoratori autonomi a subordinati, sono quattro giganti del settore. Secondo un’inchiesta di Business Insider, in Italia le maggiori società del settore fatturano insieme circa 100 milioni di euro, ne perdono 12, e hanno versato al fisco italiano circa 300 mila euro.
Glovo è una società spagnola nata nel 2015 a Barcellona e che l’anno successivo, ricorda Crunchbase, è arrivata in Italia comprando Foodinho, food delivery made in Italy fondato da Mateo Pichi. La società ha raccolto durante la sua fase di crescita circa 650 milioni di dollari e secondo i dati Dealroom nel 2019 ha generato un fatturato pari a 216 milioni di euro, con una crescita anno su anno del 200%. Con l’ultimo round di investimento del 2019, la società ha raggiunto la valutazione di mercato di un miliardo di dollari.
La strategia di Glovo è piuttosto consolidata nel food delivery: queste società, raccolti molti fondi dai propri investitori, comprano altre società più piccole all’estero cercando di aumentare il proprio mercato. Di fatto, quando comprano all’estero comprano la base clienti delle società acquisite. È solo sui grandi numeri infatti che riescono a diventare profittevoli.
La scommessa degli investitori è che sul lungo periodo diventino abbastanza grosse da generare utili e dividendi. Ma in molti casi queste società continuano a bruciare cassa, e toccherà attendere i dati completi del 2020 per capire se è stato l’anno in cui hanno invertito la tendenza.
Stessa tattica è stata usata da Deliveroo, società fondata nel Regno Unito nel 2013 e arrivata in Italia nel 2015. Ha raccolto 1,7 miliardi di dollari dai propri venture capitalist e ha diverse acquisizioni alle spalle. In base agli ultimi dati rilasciati, nel 2018 ha generato ricavi pari a 553 milioni di euro e impiega circa 2.300 persone a livello globale. A gennaio 2021 la società, che vanta tra i propri investitori anche Amazon, ha ottenuto un nuovo round di investimento pari a 180 milioni di dollari che ha portato la valutazione della società a 7 miliardi e ha in programma di quotarsi entro la fine dell’anno.
Uber Eat è arrivata in Italia nel 2016 e fa parte della famiglia Uber. È stata fondata due anni prima nel quartier generale di San Francisco. Negli anni ha acquistato sempre più centralità nel business model di Uber capace di generare ricavi pari a 885 milioni per la casa madre.
Just Eat è la più ‘antica’ tra le società di food delivery. In Italia è arrivata nel 2011, anticipando tutte le altre, mentre la sua fondazione risale al 2001, in Danimarca, anche se poco dopo la società si è trasferita a Londra. La società è stata comprata da Takeaways.com per 7,2 miliardi nel 2020 dando vita al più grande gruppo europeo del food delivery con una capitalizzazione aggregata di 12,5 miliardi di euro.
L’eco mediatica su queste società si è accesa pochi mesi dopo il loro arrivo in Italia. Il 7 ottobre 2016 a Torino venne proclamato il primo sciopero in una startup. I fattorini di Foodora, una delle prime società di food delivery arrivate a queste latitudini, incrociarono le braccia per protestare contro le condizioni di lavoro dettate dalla holding tedesca. Chiedevano maggiori garanzie e di essere considerati lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Da allora di scioperi e proteste ce ne sono stati molti, tutti mossi dalla rivendicazione di maggiori tutele e contratti da lavoratori subordinati.
Nella neolingua dell’innovazione, il tipo di business delle società di food delivery è chiamato ‘gig economy’, economia dei lavoretti. E ‘gig’, lavoretti’, erano quelli che i rider erano chiamati a fare dietro chiamate saltuarie e compensi a buon mercato. Questa era almeno la promessa iniziale. L’economia dei ‘gig’ doveva essere niente di più della versione digitale degli speedypizza, o lavori a cui dedicarsi nel tempo libero per arrotondare un po’. Ma non è andata così. Nel tempo l’impegno richiesto ai rider è diventato sempre più consistente, mentre le società diventavano colossi dei mercati e delle borse.
Il 2020 ha gettato una luce completamente diversa sugli addetti del settore, diventati in molti casi necessari non solo per la sopravvivenza delle società di food delivery, ma anche per quella dei ristoratori che solo attraverso i ciclofattorini riuscivano a vendere i loro prodotti. Negli ultimi 12 mesi il settore è esploso, con un numero di addetti difficilmente quantificabile. E i 60 mila della procura di Milano rischiano di essere solo una parte degli impiegati reali.
Fonte: AGI