Di Rosanna Alberghina
Lo zolfo è stata una delle più importanti risorse minerarie della Sicilia. Duro ne fu il commercio, di cui sono state trovate testimonianze che risalgono fin dall’Antichità, e duro il lavoro, uno dei primi a sfociare in organizzazione sindacale. L’area interessata dai grandi giacimenti è quella centrale, compresa tra le province di Caltanissetta, Enna e Agrigento. L’area mineraria si estendeva fino alla Provincia di Palermo; includeva il bacino di Lercara Friddi e la Provincia di Catania, il cui porto divenne ben presto un importante snodo commerciale a livello mondiale.
Testimonianze delle attività estrattive d’epoca Romana, sono state confermate dal ritrovamento di una placca d’argilla in contrada Puzzu Rosi, nell’area mineraria comitinese. Sembra però che questa attività fosse già largamente conosciuta nel 1600 a.C., almeno secondo i reperti trovati presso Monte Castellazzo, che testimoniano di una commercializzazione del prodotto con le popolazioni Egee. Si trattava in genere di minerale di affioramento e di cave a cielo aperto. Il metodo di scavo, rudimentale, rimase attivo fino alle soglie del XIX secolo. Inizialmente infatti, lo zolfo veniva utilizzato a scopi medici; famose a questo proposito, sono “le botti”, che alla fine del Seicento servirono per curare malattie come la sifilide tramite le esalazioni di cinabro, una minerale solfureo. Fu solo con l’introduzione del metodo Le Blanc, per la fabbricazione su scala industriale della soda, che nel 1787 lo zolfo iniziò ad essere utilizzato a scopi bellici, come ingrediente fondamentale della polvere da sparo. Lo sviluppo dell’estrazione su base industriale interessò tutto il corso dell’Ottocento e andò ben oltre i confini della Sicilia, fino ad arrivare a interessare soprattutto francesi e inglesi. Tra il 1828 e il 1830 l’esportazione di zolfo raggiunse e superò le 35.000 tonnellate, ma bisognerà aspettare il 1840 per una prima vaga stabilizzazione del mercato. Lo zolfo infatti, stava iniziando a subire la concorrenza delle estrazioni minerarie di pirite che interessavano soprattutto il centro-Italia. Curiosamente, fu una malattia delle piante a rilanciarne la diffusione. Un fungo parassita, l’oidio, iniziò a interessare i vitigni di tutta Europa, devastandoli. Il rimedio? Irrorarazioni di polvere di zolfo in soluzione acquosa. L’estrazione e il commercio di zolfo divenne così nuovamente necessario e importante; nacquero le raffinerie e gli impianti molitori del licatese fino a Porto Empedocle e alla città di Catania. La produzione continuò fino alla fine dell’Ottocento quando avvenne un nuovo crollo dei prezzi di vendita che mise in ginocchio l’intero settore
Per la fine del XIX secolo, divennero oltre 700 le miniere attive in Sicilia, con un impiego di forza lavoro di oltre 30.000 addetti, che lavoravano in condizioni brutali dall’alba al tramonto; uomini, giovani, ragazzi al di sotto dei 14 anni. Fu così che nel maggio del 1891 venne istituita la prima associazione sindacale per la richiesta di più umane condizioni di lavoro: il Fascio di Catania, che venne successivamente sciolto dal Governo di Francesco Crispi solo tre anni più tardi, portando un cambiamento nella morfologia della produzione e della commercializzazione del minerale; dopo la crisi del settore degli anni Novanta, la produzione fu spostata a Porto Empedocle, provocando un forte scompenso nell’economia catanese. Poco prima della Prima Guerra Mondiale, il settore subì un nuovo contraccolpo, a causa della diffusione del metodo Frasch, che abbassò i costi di estrazione negli Stati Uniti rendendo le miniere di Sicilia non più competitive. Fu solo dopo la Seconda Guerra che il settore zolfifero di Sicilia tornò a riprendere un po’ di respiro, fino ai primi anni Cinquanta, che videro impegnati gli Stati Uniti fronte della Guerra di Corea.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, la liberalizzazione del mercato voluto dal MEC, decretò la fine dell’industria zolfifera isolana, con la chiusura progressiva di tutte le miniere, fino a quella di Floristella (provincia di Enna), nel 1984, oggi Parco minerario con Grottacalda.
A testimonianza della cultura dello zolfo, oggi rimangono le vecchie rotaie che venivano utilizzate per il convogliamento del minerale, nonché le molteplici strutture museali volute dai Comuni e dalle provincie interessate, come il Museo e Parco Industriale della Zolfara di Lercara, in località Lercara Friddi (Palermo) o il Museo Mineralogico, Paleontologico e della Zolfara Sebastiano Mottura, a Caltanissetta. Molte furono anche le opere letterarie di poeti e romanzieri, che ne diffusero e ne tennero vivo il ricordo, denunciando talora le condizioni di lavoro e celebrando il duro lavoro di pirriaturi, capumastri e carusi. L’aspetto sociale della miniera è stato soprattutto affrontato da Luigi Pirandello, la cui famiglia gestiva delle zolfare. Con le novelle “Il fumo” e “Ciàula scopre la luna”, lo scrittore agrigentino usa la vita mineraria di Sicilia come strumento e contesto per parlare, con la sua poetica speciale, degli intrecci interiori che animano i personaggi, regalandoci al tempo stesso uno spaccato della vita del tempo
https://www.siciliafan.it/cultura-zolfo-in-sicilia…
PER NON DIMENICARE
I “carusi”
“Mamma, nun mi mannari a la pirrera….” : è il primo verso di un canto disperato, quello dei “carusi”, le vittime innocenti della tragica avventura delle zolfare siciliane. Nell’arco di oltre un secolo, dalla fine del XVIII secolo fino ai primi decenni del secolo scorso, in Sicilia e precisamente all’interno delle zolfare del territorio di Agrigento , Caltanissetta ed Enna, si è consumata una terribile tragedia, la cui memoria si è cercato di rimuovere: la tragedia dei “carusi”, i bambini venduti ai picconieri e sepolti vivi , violentati, gasati, sfruttati nell’inferno torrido, buio e sulfureo delle miniere….
La richiesta di zolfo, aumentata durante le guerre napoleoniche per l’enorme impiego di polvere pirica ed in seguito alla scoperta del metodo Leblanc per la produzione della soda, determinò un vero boom estrattivo in quest’area, già socialmente devastata dall’economia latifondista. Ad usufruire di questa sciagurata risorsa non fu naturalmente il popolo siciliano, ma le compagnie straniere (antesignane delle moderne multinazionali) come la francese Taix, Aicard et C.le, e poi alcune sparute categorie di persone, estranee al processo produttivo: sensali, magazzinieri, speculatori vari ed i proprietari terrieri.
In Sicilia vigeva infatti l’arcaico principio, già scomparso nelle zone toccate dalla ventata riformistica del ‘700, della proprietà terriera , in base al quale chi possedeva il terreno, possedeva anche il sottosuolo. I proprietari non gestivano mai direttamente la miniera, ma la concedevano in “gabella” a modesti imprenditori. Questi “gabelloti” dovevano corrispondere al proprietario l’”estaglio” (che arrivava fino al 30% della produzione) ed avevano l’obbligo, allo scadere del contratto, di lasciare gli impianti costruiti.
Tutto ciò portava al radicamento di sistemi di lavoro del tutto primitivi, ed allo sfruttamento del giacimento allo scopo di ricavarne il massimo profitto. Nei cunicoli stretti, bui, senza ventilazione, sempre più profondi e scoscesi, lavorava, accanto al capomastro ed ai picconieri, (“li pirriatura”, che abbattevano ed estraevano il minerale), un’enorme massa di “ragazzi”, che, in numero anche di due o tre per famiglia, iniziavano, anche a sei anni di età, una vita infernale, che li avrebbe presto uccisi o storpiati a vita. Alla visita di leva del quadriennio 1881 – 84, su 3872 lavoratori delle zolfare, solo 202 furono dichiarati abili (A. di S. Giuliano, “Le condizioni presenti della Sicilia” Milano, 1894), mantre Raclmuto, uno dei più grossi centri minerari dell’agrigentino, era chiamato il paese “di li jimmiruti” (dei gobbi).
I carusi erano alle dirette dipendenze del picconiere, che li ingaggiava (anzi li comprava!) dalla famiglia, alle quali versava il “soccorso morto”, una sorta di pagamento anticipato che faceva del piccolo sventurato, fino all’impossibile estinzione del debito, uno schiavo da sottoporre a qualunque tipo di sfruttamento e di violenza, dalle botte (ed erano la norma) allo stupro. Il loro compito era quello di portare il minerale in superficie, addossandosi sulle spalle, in un sacco legato alla fronte, un carico di almeno trenta chili per volta, nudi per l’eccessiva calura, con una grossa pietra sulla nuca per fare da contrappeso, tra il caldo asfissiante e le esalazioni sulfuree, su per i ripidi scalini sfalsati, fino al vento gelido dell’esterno (è rigido l’inverno nell’interno della Sicilia!), dove percorrevano l’ultimo tratto, fino al “calcarone”, dove lo zolfo veniva fuso (ancora calore!).
Ed il tutto per sedici ore al giorno, con l’incubo costante dei crolli, delle violenze e delle esplosioni di grisoux. L’eco della loro disperazione ci è giunta, oltre che dalle pagine della grande letteratura siciliana, anche da struggenti canti popolari sopravvissuti all’oblio del tempo, come questo raccolto a Racalmuto:
“Mamma, nun mi mannari a la pirrera Ca notte e jornu mi pigliu turrura. A mala pena scinnu a la pirrera S’apri lu tettu e cadinu li mura. Accussì voli la mala carrera…” ….e dopo il terrore del buio e della morte
(“Mamma,non mi mandare alla miniera, chè notte e giorno ho un grande terrore)
Appena scendo alla miniera, si apre il tetto e crollano i muri , i versi successivi scandiscono l’ansia del conteggio alla rovescia , quando la luce sempre più fioca della “lumera” indica al caruso che si avvicina l’ultimo viaggio della giornata verso il suolo, dove l’aspettano “li robi ed un tozzu” (i vestiti ed un tozzo di pane) ….ed a volte la luna, come per il Ciaula pirandelliano, che la “scopre” con gioia dopo una terribile esperienza di panico claustrofobico. Poi, per chi non viveva dentro le zolfare stesse, c’era il lungo viaggio quotidiano di andata e ritorno dal paese, sempre al buio:
“….Cà no pi iddri,/ pi l’erbi di lu chianu/, luci lu suli biunnu a la campia…” (perché non per loro, costretti a lavorare dalle prime luci dell’alba fino oltre il tramonto, ma per le erbe del pianoro brilla il sole biondo per le campagne….): così Alessio Di Giovanni, il poeta che meglio di ogni altro è riuscito ad interpretare l’avventura tragica della zolfara siciliana. Eppure > conclude Leonardo Sciascia alla voce “Zolfo” del suo “Alfabeto pirandelliano”
Tratto da: Giovanna LAURICELLA: ” La Girgenti pirandelliana tra passato e presente” da una rilettura de “I vecchi e Giovani”, Appendice. Agrigento, 1993.
Gessolungo, 12 novembre 1881: strage nel “lager minerario”
“26 sett 2015: Dopo aver reso omaggio a chi lavorando è morto e ai bambini sfruttati per sottolineare la loro dignità.
Sergio Mattarella”.
Questo il messaggio firmato, lasciato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (la prima volta di un Presidente) nel “Cimitero dei carusi” di Caltanissetta, al termine della cerimonia che si è svolta nel 2015 al sacrario che ricorda la tragedia del 12 novembre 1881 in cui morirono in miniera 65 persone, tra cui 19 bambini.
Per uno scoppio di grisou nella miniera di Gessolungo nel Nisseno (uno dei tanti incidenti se così li vogliamo chiamare) perirono ben 65 minatori, tra adulti e 19 “carusi” (bambini dagli 8 ai 14 anni strappati alle loro povere famiglie per pochi spiccioli e ridotti alla schiavitù). Ben nove di questi rimasero senza un nome.
A quei tempi vigeva un terribile contratto denominato il “soccorso morto”, vera deportazione: se la famiglia povera e numerosa aveva bisogno di un misero prestito per sopravvivere questo gli veniva concesso a patto che desse in garanzia un suo figlio il quale veniva sfruttato senza pietà e abbandonato a se stesso dai suoi parenti. Se un giorno la famiglia avesse restituito i soldi (ma spesso i bambini morivano di malattie, di stenti o per incidenti che erano all’ordine del giorno) i pochi che riuscivano ad arrivare alla vecchiaia (molti di questi erano costretti a rimanevano all’interno della miniera come ‘carusi’ ovvero schiavi a vita) rimanevano in pessime condizioni fisiche e di salute.
Questi bambini non venivano restituiti la maggior parte delle volte, perché fra le varie miniere se li scambiavano per cui spesso i genitori perdevano i contatti (nel solo distretto minerario di Caltanissetta nel 1882 i fanciulli sfruttati erano ben 6.732 nei lavori interni e 2.049 negli esterni).
https://www.ilsitodisicilia.it/gessolungo-12-novembre…/