Il libro, uscito postumo, racconta la fine del secondo conflitto mondiale. Ma lo fa da un punto di vista eccentrico: quello di Alberto Luini, che si arruola nella Repubblica sociale italiana
Maria Rosa Cutrufelli Nelle foto Giovani della Repubblica sociale di Salò e la copertina del libro di Marcello Argilli · 1 Nov 2022
Il rapporto fra i sessi è falsato dalla guerra che spinge gli uomini ad affollarsi nei “casini”. Ma non è solo questo il motivo; è proprio la costruzione sociale dei ruoli sessuali a rendere impossibile comunicare ed aprirsi
Maurice Halbwachs, sociologo della memoria, sostiene che la storia comincia «nel momento in cui la tradizione (orale) finisce». È allora che nasce, secondo Halbwachs, il bisogno di scrivere. Ossia di fissare attraverso la scrittura alcuni eventi secondari (o ritenuti tali) inserendoli in quella Storia Grande che tende a escluderli. Infatti, è quando la memoria collettiva si estingue che il vissuto di uno specifico gruppo sociale rischia di sprofondare in un passato inconoscibile. A me sembra che il romanzo di Marcello Argilli (L’altare nero, ed. Bordeaux, euro 18), intenso, forte e per molti versi perturbante, risponda proprio all’esigenza di rielaborare, prima che la memoria collettiva la cancelli, un’esperienza tragica che, intorno alla metà del secolo scorso, segnò tante vite. Un’esperienza che deve essere ancora capita in tutta la sua drammaticità. Il romanzo racconta la fine della seconda guerra mondiale. Ma lo fa da un punto di vista eccentrico: quello di Alberto Luini, un ragazzo giovanissimo, uno studente che si arruola volontario in una formazione di paracadutisti della Repubblica sociale italiana. Il romanzo entra nei suoi pensieri, nei suoi convincimenti e ci fa “vedere” (letteralmente) le motivazioni di una scelta che a volte ci appare suicida. Il sentimento che lo anima, infatti, è molto simile alla ricerca della “bella morte” che ci ha raccontato un altro scrittore, Carlo Mazzantini, in un libro autobiografico. Una “bella morte” che qui si ammanta di un’aura epica e ha come riferimento costante il “battaglione sacro dei tebani”. Quel mitico, invincibile battaglione che «era più di una famiglia» per un ragazzo come Alberto: era «un nodo spirituale».
Si tratta di un tema insolito, poco presente nella letteratura che interpreta quegli anni e quegli avvenimenti storici. Siamo di fronte a un libro, in sostanza, che non si conforma alla narrazione tradizionale. In particolare, non mette in scena la voglia di futuro, il desiderio di cambiare l’ordine delle cose che troviamo in tanti racconti di “lotta partigiana”. Questo libro, al contrario, narra il disorientamento e la confusione di quei giovani che, avendo perso i vecchi codici interpretativi, non sanno più decifrare la realtà. Giovani rinchiusi nel passato, che non riescono a trovare una via di salvezza che si apra sul domani. Giovani cresciuti nel mito dell’eroismo e della fratellanza virile, che si ritrovano delusi e disperati. E che finiscono per equiparare la morte a un’eroica libertà. Alberto, quando è ormai circondato e senza possibilità di scampo, pensa che «mai si era sentito così limpidamente fascista, proprio perché non c’era più nulla da sperare, e inorgogliva, nell’assoluta libertà di quel vuoto, scoprirsi un corpo del quale poter totalmente disporre». L’altare nero, uscito postumo, occupa un posto speciale nella produzione di Marcello Argilli, famoso in tutto il mondo come autore di libri per ragazzi. È infatti un romanzo “per tutti”, benché racconti ancora una volta di ragazzi (Alberto ha solo diciotto anni). Ma li racconta, questi ragazzi, agli adulti. Con la lingua degli adulti, pronta a catturare il lato oscuro della realtà. Con una lingua, soprattutto, che tiene conto delle contraddizioni e degli inesorabili corsi e ricorsi della Storia. Per questo, forse, non mi stupisce che, a leggerlo oggi, anni dopo la sua stesura, questo romanzo si riveli di una cocente e dolorosa attualità.
Sono almeno tre, a mio parere, i grandi temi al centro della narrazione che ci riportano all’oggi e alle domande che da qualche tempo ci facciamo quotidianamente.
Il primo è senza dubbio il tema della guerra, con la sua violenza gratuita e inesorabile, la sparizione di ogni certezza, la precarietà di ogni cosa, dalla vita alle relazioni, familiari, amorose o amicali che siano. E la terribile sensazione di non avere più alcun controllo su te stesso e sul mondo che ti circonda. Di aver perso ogni possibilità di amare e di essere amato. Per Alberto perfino la madre e il padre ormai non sono che fantasmi sfuggenti. «Era Natale anche a Roma… Al tavolo in camera da pranzo, in due, ci si sarebbero persi, se non erano venuti gli zii con i cugini. Ma al di là del fronte, così lontani, erano come fantasmi di un altro mondo, e dava un senso di malessere immaginare che forse ora stavano parlando di lui». Il secondo tema è la costruzione della “virilità”, una gabbia sociale che rinserra gli uomini in un recinto stretto e li illude e, al tempo stesso, li inganna. Il mito dell’eroismo che porta alla “bella morte” e il disprezzo per chiunque non sia all’altezza del mito, fa parte di questa impalcatura che sostiene l’identità sessuale. Un disprezzo che si estende ai “nemici”, così inadeguati, così “indegni” perfino di morire per mano dell’eroe. Alberto dice, di fronte a due contadini: «Sembrava impossibile che nascondessero delle armi, rischiando la fucilazione. In ogni caso immiseriva invischiarsi con gente simile».
Questa virilità tossica condiziona anche il modo di vedere le donne e, in fondo, nega la possibilità stessa dell’amore. È ancora Alberto a parlare, attraverso l’autore: «Era una debolezza pensare a lei. Non doveva aver bisogno di nessuno. Ormai era primavera, potevano spedirli al fronte da un momento all’altro. Se fosse morto, Liliana neanche l’avrebbe saputo… Poteva accadere, e in qualche modo era un pensiero esaltante». Il rapporto fra uomini e donne, che costituisce un altro “tema” portante del libro, è falsato dalla guerra, che spinge gli uomini ad affollarsi nei “casini”. Ma, a ben vedere, non è solo la guerra che stringe i ragazzi fra la battaglia e lo “sfogo” nei bordelli. È proprio la costruzione sociale dei ruoli sessuali a rendere impossibile, per gli uomini come per le donne, comunicare e capirsi. Il capitano Bacci, che per Alberto è un punto di riferimento, tratta la moglie come se fosse un’appendice, socialmente inevitabile ma esistenzialmente superflua (o comunque secondaria), della sua vita. E questo è il “modello” di virilità a cui tutti si adeguano. Guerra, virilismo, rapporto fra i sessi: questo romanzo, letto oggi, ci fa comprendere da dove veniamo e perché è tanto difficile e complicato superare i mali che ancora ci affliggono. Il mito dell’Eroe, che la scrittrice Ursula Le Guin ha ribattezzato come mito dell’Assassino, ha fatto e continua a fare molto male, sia alle donne che agli uomini. È da questo mito che prendono forma le varie espressioni della violenza, che vanno senza soluzione di continuità dalla ferocia bellica ai maltrattamenti in famiglia.
L’altare nero è un libro esemplare, che ci racconta per l’appunto la genesi della violenza, e in questo senso può anche dirsi (almeno a mio parere) un romanzo pedagogico. L’autore parla agli adulti, ma perché capiscano il ragazzo che ciascuno è stato. Il ragazzo che gli adulti hanno voluto che fosse.
Fonte: Il Riformista