Di Gianni De Iuliis
Prima e unica donna italiana ad aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura, Grazia Deledda (1871 – 1963) ha raccontato nelle sue opere le tradizioni patriarcali della società sarda, aggiungendo però un tocco di umanità grazie a delle storie personali di grande ispirazione e forza emotiva, che trattano temi come il dolore e la morte. Autrice complessa anche di opere teatrali, è ricordata per il suo stile non convenzionale e per sua potenza espressiva.
I temi principali furono l’etica patriarcale del mondo sardo e le sue atmosfere fatte di affetti intensi e selvaggi.
L’esistenza umana è in preda a forze superiori, “canne al vento” sono le vite degli uomini e la sorte è concepita come “malvagia sfinge”.
La narrativa di Deledda si basa su forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità.
Deledda sa che la natura umana è altresì – in linea con la grande letteratura europea – manifestazione dell’universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, compensazioni e censure. Spesso, infatti, il paesaggio dell’anima è inteso come luogo di un’esperienza interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia: da una parte intervengono i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della comunità di appartenenza, dall’altra, come in una sorta di doppio, maturano nell’intimo altri pensieri, altre immagini, altri ricordi che agiscono sugli esistenti.