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Governare l’età dei conflitti

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di Amedeo Lepore

Il mondo sta conoscendo una fase di particolare complessità tra una globalizzazione che ha rallentato il passo, modificando i suoi caratteri di fondo ma non venendo meno, e ostilità diffuse – non solo la guerra e le relative tragedie in Ucraina e Medio Oriente – che rappresentano un pericoloso detonatore per la stabilità internazionale e rendono gravido di incertezze il prossimo futuro dell’economia e della società. Il contesto globale si sta velocemente muovendo all’interno di un’età di crisi con estesi spazi di conflitto e prove di forza inedite.

Una recente indagine dell’Economist Intelligence Unit, intitolata “Age of conflict”, ha fornito un quadro dello stato della democrazia in 167 Stati e territori, con molte significative informazioni. Se quasi la metà della popolazione del pianeta vive in democrazie (o quasi), solo poco meno dell’8% si trova in condizioni di piena democrazia, con un dato del 2023 in calo di oltre un punto rispetto al 2015, e oltre il 39% sotto un regime autoritario, con un dato in crescita soprattutto negli ultimi anni.

Secondo questa analisi, le democrazie mondiali appaiono incapaci di prevenire le guerre e di governare le controversie sociali interne, indebolendo così le prospettive di rinnovamento politico e ostacolando il progresso dell’economia, strettamente legato a una situazione di non belligeranza e all’interdipendenza dei flussi produttivi e commerciali internazionali. Questo scenario dipende dal “disaccoppiamento” e dai contrasti tra le potenze egemoni tradizionali, come gli Stati Uniti, e quelle emergenti, come Cina e Arabia Saudita, che sono resi più aspri dai focolai di guerra, mettendo in discussione l’assetto geopolitico globale.

L’EIU afferma che “il modello democratico sviluppato negli ottant’anni successivi alla seconda guerra mondiale non funziona più”. Eppure, l’Europa occidentale è l’unica area continentale che è riuscita a tornare ai livelli di libertà civile e democrazia precedenti la pandemia, nonostante tutti i suoi problemi e la persistenza di un’ampia insoddisfazione dei cittadini per la situazione politica.

Questo aspetto critico dimostra che l’esistenza di istituzioni democratiche, stato di diritto e strumenti di governance non basta di per sé a determinare il consenso necessario, ponendosi un problema di efficienza e risultati tangibili, oltre che di riconoscimento e identificazione da parte dei governati. La ricerca indica, inoltre, un incessante malessere e un’assenza di sostanziali miglioramenti nelle aree al di là dei confini europei, che patiscono un arretramento della democrazia.

La parte più significativa dell’indagine è dedicata a democrazia, guerra e pace. La sfida per l’accaparramento delle risorse del pianeta è una delle cause principali di conflitto, ma non l’unica, come dimostra la realtà attuale. Vi sono altri motivi di rottura, che derivano da contese per confini e questioni territoriali, fondamentalismo religioso o razzismo, soppressione dei diritti e delle libertà, diffusione della criminalità e, soprattutto, mutamento degli equilibri geopolitici. Tuttavia, la mancata riorganizzazione del “sistema globale e multilaterale” da parte delle potenze occidentali, di fronte a uno spostamento verso oriente del potere economico, può contribuire a intensificare rivalità e tensioni, aumentando il rischio di un allargamento degli scenari bellici.

Secondo una vasta opinione, l’estensione delle ostilità dipende dal peso accresciuto degli Stati autoritari, dato che le democrazie, per antonomasia, sono promotrici di pace. Sul versante storico si può osservare che, dopo gli stermini delle due guerre mondiali, il periodo successivo al 1991 è stato caratterizzato da minori conflitti e vittime rispetto a quello della “guerra fredda”, tra il 1946 e il 1991. L’internazionalismo wilsoniano degli Stati Uniti, che aveva come finalità la democrazia e la pace, ha prevalso per oltre un secolo sull’orientamento realista, che sostiene una strategia estera fondata su interessi concreti. Nonostante ciò, convenienze e ideali spesso si sono intrecciati nelle vicende internazionali effettive, mischiando le carte della storia ed esponendo le democrazie, che non hanno lunghissimi trascorsi nella loro configurazione moderna, a insicurezze e pericoli di declino.

A parere dello storico John Lewis Gaddis, nel dopoguerra è prevalsa una “lunga pace” in Europa per la minaccia rappresentata dalla guerra fredda. Perciò, in una congiuntura connotata da crescenti contrasti, le democrazie occidentali dovrebbero concentrare i propri sforzi – oltre che sulla prevenzione e sul contenimento dei conflitti regionali, per evitare che si trasformino in conflagrazioni globali – sull’apertura di una fase per la costruzione di un nuovo ordine mondiale. Questo obiettivo, secondo il rapporto, va perseguito anche se ci vorrà molto tempo prima che l’ascesa economica dei Paesi emergenti si traduca in predominio geopolitico e militare, giacché fin da ora occorre procedere a un riassetto delle strutture di potere globale, pena una sempre più forte instabilità e una progressiva escalation dei livelli di scontro.

Per non alimentare “polarità” contrapposte, di cui scrive un altro storico come Adam Tooze negando l’esistenza di blocchi consolidati, è indispensabile avviare un riordino del sistema politico internazionale, che includa le potenze emergenti senza premiare i regimi che violano i più elementari diritti e l’uguaglianza dei popoli, sostenendo i valori di libertà, democrazia e integrazione economica. Gli Stati Uniti, per il loro ruolo di perdurante preminenza economica, e l’Europa, per la sua storica vocazione alla prevalenza della ragione, hanno il compito di interrogarsi su questa prospettiva, provando a gettare uno squarcio di luce su un avvenire quanto mai arduo.

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