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Gli abbagli di Landini sul lavoro

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Precarietà in calo e salari in aumento quando aumenta la produttività. Fisco e diseguaglianze. Perché i dati misurati sulla realtà del paese fanno spesso a pugni con la percezione del sindacato

Claudio Negro e Alberto Brambilla

Dati Istat sull’occupazione e manifestazione della Cgil contro il precariato in Italia con tanto di contorno dei nuovi “landiniani” a partire da Elena Ethel Schlein, detta Elly e Giuseppe Conte: come già il povero Saragat anche Landini (e naturalmente i suoi nuovi soci) subisce una pesante disillusione (Marx che amava volare alto avrebbe parlato di “dure repliche della storia”) rispetto alle sue analisi, accuse e proclami circa le condizioni del lavoro in Italia. Ogni volta che escono i dati Istat, Bankitalia, Anpal, per il segretario della Cgil è una pugnalata! La realtà vera è diversa da quella che dipinge con il sostegno di molti talkshow che anziché verificare se l’italia è così precaria, danno per reale ciò che non è. E allora per una visione più precisa mettiamo a confronto quanto dichiarato da Landini (e non solo lui) nelle recenti manifestazioni e quanto emerge dai dati che vengono comunicati (e che hanno la caratteristica di essere oggettivi anziché “percepiti”, come è invece la prevalente narrazione sindacale).
Innanzitutto, l’immiserimento dei lavoratori italiani: questo assunto viene poi declinato in diverse manifestazioni. La più ricorrente è quella della precarietà. In realtà l’istat da mesi ormai ci illustra una situazione in cui gli occupati sono sempre più numerosi: a maggio 2023 risultavano occupati 23.471.000 italiani, pari ad un tasso di occupazione del 61,2 per cento, record storico assoluto per entrambi i dati. Non solo: tra i lavoratori dipendenti crescono, ormai da molti mesi, i contratti stabili, che non sono mai stati così numerosi nella storia del paese, e diminuiscono quelli a termine, che sono in calo ininterrotto dal marzo 2021 e si attestano al 15,9 per cento del totale (area Euro 15,1 per cento, Francia 16,4 per cento,). Con i contratti a termine siamo ormai a un minimo fisiologico, che corrisponde per un verso alla scelta aziendale di utilizzare il contratto a termine come periodo di prova “lungo”: nel 2022 il 33 per cento dei contratti stabili sono contratti temporanei trasformati in contratti a tempo indeterminato; e per un altro verso al bisogno di flessibilità delle imprese rispetto a eventi non programmabili quali sostituzione di assenze o picchi di attività temporanei.
La seconda ragione dell’immiserimento sarebbe l’inadeguatezza dei salari italiani: ma non dovrebbero essere i sindacati a fare i contratti e mantenere i salari a un buon livello? A sostegno di questa tesi si usa il dato Ocse per cui l’italia sarebbe l’unico paese tra quelli industriali nel quale il valore reale del salario si sarebbe ridotto (-2,5 per cento) tra 2010 e 2020. Il dato, citato assiduamente, non dà notizie degli ultimi tre anni, e trascura soprattutto di prendere atto del rapporto tra andamento dei salari e della produttività. Vediamoli brevemente. Nel periodo 2021-2022 i salari orari medi italiani sono aumentati del 2,3 per cento, contro il 4,4 per cento della media europea. Non un risultato straordinario, ma una significativa inversione di tendenza trainata da un fattore al quale Landini nei suoi comizi non si mostra affatto attento: la produttività; questa, che è il vero carburante della crescita delle retribuzioni, è diminuita tra il 2010 e il 2020 del 12 per cento, mentre le retribuzioni soltanto del 2,5 per cento. Sarebbe una magra consolazione: più importante il fatto che, ad esempio, nel comparto metalmeccanico nel periodo 2012-2022 a un aumento della produttività di 15 punti abbia corrisposto un incremento medio dei salari di oltre il 12 per cento. Fatto questo reso possibile da una lunga tradizione di contrattazione aziendale integrativa e talvolta alternativa a quella nazionale (ad esempio quella Fca) che consente di ottimizzare l’organizzazione della produzione e distribuirne gli utili. Ma Landini pensa che gli incrementi retributivi non possano che essere frutto di interventi centralizzati, come il rinnovo dei Ccnl, l’introduzione di un salario minimo di legge, il taglio di tasse e contributi a carico dei lavoratori (e ovviamente a spese dei contribuenti); il che sposta la questione salariale dal terreno della contrattazione a quello della politica e spiega la graduale ma ben visibile mutazione di parte del sindacato in soggetto politico. Nei fatti, non riuscendo nella missione principale del sindacato, cioè fare contratti visto che la metà sono scaduti e molti da 6/10 anni, la “controparte” è diventata il governo che con un sistema pensionistico appesantito dalla eccessiva assistenza lo manda progressivamente in default con lo sconto sui contributi.
Altro argomento abusato perché giudicato di effetto spettacolare è quello sintetizzato nell’affermazione “dipendenti e pensionati pagano da soli oltre l’80 per cento dell’irpef”: sarebbe strano che fosse diverso, visto che rappresentano l’82 per cento dei contribuenti. E anche sui richiami al fatto che la tassazione sui redditi debba essere progressiva, occorrerebbe ricordare che il 40 per cento dei lavoratori (quelli che non dichiarano più di 15.000 euro annui) versano Irpef uguale a zero, e poco più versano i pensionati in analoghe condizioni. Alla fine, il 13 per cento dei contribuenti, quelli che onestamente dichiarano redditi da 35 mila euro lordi l’anno in su e che non sono minimamente tutelati dai sindacati e neppure per la verità dalla maggior parte della classe politica, paga il 60 per cento dell’imposta: niente male quanto a progressività. Fermo restando che l’evasione fiscale è un problema nazionale, ma non è privilegio degli autonomi o dei rentiers! Infine la leggenda nera del paese che diventa sempre più povero e nel quale aumentano le diseguaglianze. In realtà nel 2022 è diminuita la disuguaglianza economica (indice di Gini sceso da 30,4 per cento a 29,6 per cento) e il rischio di povertà da 18,6 a 16,8. Il che ovviamente non nega che una parte della popolazione sia in condizioni di povertà ma richiede di capirne le cause e l’identità, piuttosto che allargare alla gran parte della popolazione il dubbio privilegio di appartenere alla categoria al fine di rivendicare un continuo aumento della spesa assistenziale da finanziare con mirabolanti prelievi fiscali sulle “grandi fortune” o sugli “extraprofitti”, categorie di fantasia atte a riproporre una visione delle relazioni sociali dalle quali evidentemente nel sindacato molti faticano a fare a meno: quello della lotta fra le classi. Un tempo ebbe la sua ragion d’essere, ma quando la storia si ripete (avvisava Marx) si muta in farsa!