Di Antonino Gulisano – direttore editoriale
“La volpe sa molte cose ma il riccio ne sa una grande”, scriveva il poeta greco Archiloco. Isaiah Berlin ne ricavò un criterio con cui classificare gli scrittori, i pensatori e gli uomini in generale. Ci sono quelli che come la volpe si disperdono in molte idee, talvolta pure contraddittorie, e quelli che come il riccio hanno una sola idea dominante che ispira tutto il loro lavoro intellettuale. Non credo che ci possano essere dubbi sul fatto che l’opera di John Rawls, scomparso all’età di 81 anni, corrisponda perfettamente a quella del riccio di Archiloco.
L’idea dominante di Rawls è che “la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste.” E’ l’idea enunciata nella prima pagina di Una teoria della giustizia. L’opera apparve nel 1971. Alla sua costruzione l’autore stava lavorando già da quasi due decenni e ad essa continuò a dedicarsi come un riccio, perfezionando la sua immensa cattedrale fin quasi alla morte.
La pubblicazione del capolavoro di Rawls modificò radicalmente l’identità della filosofia politica. Pochi anni prima Berlin scriveva senza sbagliarsi che “nel ventesimo secolo non è apparsa alcuna opera di teoria politica che abbia dominato la scena”. Ma quel giudizio non era più vero dopo la pubblicazione della teoria di Rawls. Una teoria della giustizia diede infatti alla filosofia politica contemporanea “a new departure”, – come scrisse qualcuno – cioè un nuovo, promettente inizio. Si affermò un nuovo paradigma teorico che divenne il quadro di riferimento comune nel dominio della filosofia politica contemporanea. Il giudizio di Robert Nozick secondo cui “ora i filosofi politici devono lavorare all’interno della teoria di Rawls o chiarire perché non lo fanno” ha trovato vieppiù conferme in questi anni.
Rawls ridefinì in modo esemplare l’oggetto e lo scopo della filosofia politica, riuscendo a combinare in un matrimonio felice il rigore analitico e l’interesse normativo. Anzitutto l’opera di Rawls era rigorosamente filosofica, purché si assuma che il compito della filosofia consista nell’esame accurato degli argomenti e debba approdare, attraverso una ricerca sofisticata, all’individuazione di quello migliore; che la filosofia sia un’impresa intellettuale aperta alle obiezioni e alle critiche di chiunque, impegnata a
fornire di fronte ad un uditorio universale (o, quanto meno, non troppo parrocchiale) le ragioni, le quali giustificano la propria soluzione.
Al tempo stesso però l’interesse normativo della teoria di Rawls per “il primo requisito delle istituzioni sociali”, per la giustizia come valore indipendente e non negoziabile, ne faceva una voce rilevante e critica nella sfera pubblica. A suo modo Rawls perseguiva lo stesso obiettivo che era stato il sogno della filosofia americana dell’epoca del new deal, di Dewey in particolare: far entrare la filosofia nel discorso pubblico.
Sul contenuto normativo della teoria della giustizia mi pare importante segnalare due elementi di cui si è ampiamente discusso durante un convegno che la Facoltà di scienze politiche dell’Università statale di Milano ha organizzato in onore di John Rawls.
Il primo riguarda la propensione egualitaria della teoria, nel senso che una società giusta richiede che le disuguaglianze tra i suoi membri devono essere giustificate e non possono essere accettate come un fatto bruto. Prendere sul serio il contenuto normativo della teoria della giustizia implica un onere della prova per chi difende una disuguaglianza tra i membri della società piuttosto che per coloro che richiedono l’eguaglianza distributiva. E’ questo il senso del secondo principio di giustizia (il cosiddetto principio di differenza) secondo cui l’ordine sociale non deve determinare e garantire le prospettive più attraenti di quelli che stanno meglio, a meno che ciò non vada anche a vantaggio dei meno fortunati. Sussiste in ogni caso un vincolo fondamentale liberale al perseguimento del maggior beneficio dei meno avvantaggiati (il cosiddetto maximin): esso è costituito dal valore prioritario della libertà individuale. In una società giusta ogni persona ha un eguale diritto ad uno schema di eguali libertà fondamentali che sia compatibile con uno schema simile per tutti. Il principio di libertà è prioritario rispetto a quello di differenza perché la libertà può essere limitata soltanto nell’interesse della libertà.
Il secondo aspetto della teoria di Rawls su cui è opportuno soffermarsi riguarda la soluzione adottata per risolvere i problemi che il pluralismo pone alla stabilità politica nelle società contemporanee. Come è possibile una società ospitale che garantisca la pacifica ed ordinata convivenza di individui e gruppi che hanno concezioni del bene e stili di vita differenti, talvolta profondamente differenti? La soluzione del problema consiste nell’affermare la separazione fra la prospettiva privata (del bene) di ciascun individuo e la prospettiva pubblica (del giusto) della cittadinanza. Alla prospettiva privata
del bene possiamo accedere quando affrontiamo le scelte che riguardano le domande ultime sulla nostra vita (ad esempio di carattere religioso o filosofico); alla prospettiva del giusto dobbiamo accedere invece quando affrontiamo questioni di interesse pubblico (ad esempio la risoluzione dei dilemmi della bioetica contemporanea o le questioni che riguardano la politica dell’istruzione). Questa è la celebre tesi di Rawls della separazione del giusto (right) dal bene (good) e della priorità del primo sul secondo, come dice una formula che è ormai ampiamente utilizzata nell’ambito della filosofia politica. In altre parole, la politica ha il compito di definire i principi che sono in grado di regolare una società giusta ma non quello di promuovere i modelli di vita dei cittadini. Ciò implica che le istituzioni pubbliche soddisfino il criterio di neutralità rispetto alle diverse concezioni del bene, cioè siano imparziali rispetto ad esse. I principi si cui si fondano le istituzioni di una società giusta devono essere giustificati pubblicamente in maniera indipendente dalle dottrine comprensive del bene cui aderiscono privatamente i cittadini.
Rawls mostrerà inoltre, soprattutto nelle lezioni pubblicate nel 1993 con il titolo di Liberalismo politico, che questa concezione neutrale della giustizia è comunque compatibile con i valori sostenuti dalle varie dottrine comprensive presenti nella cultura di una società politica democratica, anzi che può essere sostenuta dai cittadini anche in virtù di talune caratteristiche delle concezioni del bene che essi abbracciano. Questo è l’effetto virtuoso della cultura politica democratica che avrebbe modificato, in parte almeno, le diverse concezioni del bene, rendendole tutte vieppiù ragionevoli e liberali. E’ una lezione che può servire a noi, oggi, se vogliamo prendere sul serio le questioni poste dal multiculturalismo: garantire le condizioni di una società ospitale nei confronti delle differenze e però anche assicurare a chiunque la protezione dei diritti umani fondamentali.
Hai scavato bene, vecchia talpa!