di Antonino Gulisano
Giuseppe Conte è il nuovo presidente del Movimento 5 stelle. A votare sono stati 67.064 iscritti su 115.130 aventi diritto. Conte è stato eletto con 62.242 voti, il 92,8% del totale. Pochi minuti dopo l’annuncio di Vito Crimi, l’ex premier ha diffuso un messaggio di ringraziamento agli iscritti.
Tutti si sono affrettati ad applaudire alla elezione del nuovo leader del Movimento, ma se analizziamo i voti e gli iscritti, credo che questo voto tanto “bulgaro”, in realtà, non risulti.
Premettiamo che il voto è stato online e che può esserci il sospetto che il numero di click non corrisponda a quello delle persone fisiche votanti. Se gli iscritti aventi diritto al voto sono 115.130 e ne hanno votato solo 67.064 significa che la partecipazione è stata limitata ad appena il 50% degli iscritti. Fra coloro che hanno partecipato al voto hanno votato a favore di Conte, unico candidato, in 62.242 cioè il 92% del 50% degli iscritti.
Quindi Conte ha fatto una corsa da solo, senza concorrenti. Appena eletto il nuovo leader ha dichiarato: “Ce la metterò tutta per non deludervi, per restituire dignità alla politica, quella con la “P” maiuscola. Il nostro è un progetto forte e solido che guarda al futuro, al 2050, ma che non vuole trascurare le urgenze. Non coinvolgeremo solo i gruppi territoriali e i forum tematici, che ricordo sono aperti anche ai non iscritti. Da settembre io girerò tutta Italia, avremo così la possibilità di arricchire il nostro programma e spero già a fine anno avremo il più partecipato e importante programma di governo che sia mai stato elaborato”.
Trovo che queste parole siano state un’ottima dichiarazione di principio, ma senza alcun impegno su un progetto preciso, così come vago mi sembra il programma di questo nuovo percorso del M5S, con un traguardo al 2050.
Le uniche dichiarazioni dalle quale emerge un impegno hanno riguardato i due cavalli di battaglia del Movimento: la rivisitazione della Giustizia e la battaglia sul reddito di cittadinanza.
La mia personale contrarietà al reddito di cittadinanza non deriva tanto dal non avere questa misura abolito la povertà, come i cinquestelle avevano annunciato in una notte di stampo sudamericano da un balcone di Palazzo Chigi, e nemmeno dall’essere stata affiancata da strumenti risibili tipo i navigator e i software importati nientemeno che dal Mississippi, e neanche perché mette qualcuno nelle condizioni di scegliere cinquecento euro cash dallo Stato per non fare niente invece di mille euro da un privato per lavorare.
Il provvedimento “per abolire la povertà” non è un’erogazione universale di denaro pubblico agli italiani, ma un semplice sussidio di disoccupazione, reso complicato nella normativa che lo disciplina e con aspetti surreali nella sua pratica applicazione.
Chiamare reddito di cittadinanza il sussidio di Conte, che ha ampliato e complicato gli strumenti di lotta alla povertà già previsti dall’ordinamento, è una trappola politica e semantica nella quale sono cascati tutti: sia gli italiani che hanno votato il M5S convinti che Beppe Grillo e i Casaleggio avrebbero da lì a poco versato un assegno mensile a vita, appunto un reddito di Stato per il solo fatto di essere cittadini, sia gli oppositori che hanno contestato l’idea alla base.
L’unico che non c’è cascato è Mario Draghi, il quale ha detto che valuterà gli effetti del provvedimento e che, se necessario, lo cambierà con uno strumento più efficace, cosa che farà da politico consumato quale è.
Draghi intelligentemente ha sottolineato che condivide il concetto di base del sedicente reddito di cittadinanza che, appunto, non è un reddito di pigrizia, ma una misura a sostegno delle fasce più povere della popolazione, a maggior ragione oggi che sono state profondamente colpite dalla pandemia.
Ciò che serve in questo momento è rivedere il concetto di sostegno alla difficoltà nel trovare lavoro e alla povertà momentanea, per declinare una cultura del valore del lavoro e della formazione.