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Giorno della Memoria: la posta in gioco è sempre la sopravvivenza dello Stato ebraico

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di Umberto Ranieri

E’ bene che ogni sforzo sia compiuto per ricordare a chi tende a dimenticare, per ricostruire con la maggiore cura possibile la verità del tentativo di annientare un popolo, gli ebrei d’Europa, da parte del regime nazista.

A partire dall’estate del 1942 e per poco meno di tre anni, milioni di persone, dai ghetti dell’Europa orientale e dal resto dell’Europa occupata, vengono portate in convogli ferroviari nei campi di sterminio. Auschwitz diventerà il simbolo dell’intero sistema di annientamento degli ebrei. A capo di questa immensa organizzazione logistica c’è Adolf Eichmann. Una macchina di sterminio senza precedenti. L’unicità del genocidio degli ebrei è rintracciabile nel carattere globale e universale della persecuzione, come scrive Bernard Bruneteau “gli ebrei furono perseguitati allo stesso modo in tutta l’Europa occupata e, se Hitler avesse vinto la guerra non avrebbero potuto rifugiarsi in nessun luogo al mondo”. Auschwitz, ricorda lo storico Enzo Traverso, costituisce una sintesi unica dei diversi elementi che si trovano in altri crimini o genocidi.

Dal 1939 al 1941 sembrò prevalere nei nazisti l’ipotesi di una deportazione ad est degli ebrei. Dopo la sconfitta della Francia nel 1940 fu presa in considerazione l’idea della deportazione in Madagascar. Tra il dicembre del 1941 e febbraio del 1942 maturò la scelta definitiva del genocidio con la costruzione e la messa in funzione dei campi, le fabbriche della morte. La storia dello sterminio deve includere anche l’azione dei funzionari e delle istituzioni nei territori occupati e negli Stati satelliti della Germania. Senza la partecipazione della polizia francese ed olandese sarebbe stato difficile l’arresto degli ebrei a Parigi o ad Amsterdam. Senza le azioni condotte dalle autorità e dalle forze filonaziste dell’Ungheria sarebbe stato impossibile mandare a morire quattrocentomila ebrei ungheresi.

In Italia le leggi del 1938 emarginarono e umiliarono gli ebrei. L’8 settembre del 1943 aveva inizio -scriverà Renzo De Felice- “l’ultimo atto della immane tragedia degli ebrei italiani”, con la complicità della Repubblica di Salò zelante esecutrice della deportazione di tutti gli ebrei italiani o stranieri che fossero. Nel 1945 il numero degli ebrei d’Europa che era di quasi dieci milioni nel 1939 era sceso a meno di quattro milioni. Insieme con gli ebrei era stata annientata anche la grande spinta creativa ebraica dei primi decenni del secolo.

Uno stretto legame unirà la Shoah e la creazione dello Stato di Israele. Tra il 1945 e il 1948, 150 navi clandestine tentano di avviare dall’Europa 70.000 rifugiati ebrei verso quello che non è ancora lo Stato di Israele. Nel corso della guerra di indipendenza del 1948 /49 un terzo dei combattenti del giovane esercito israeliano è costituito da sopravvissuti allo sterminio, come anche un terzo dei 6000 che moriranno in battaglia. Alla fine del 1949 Israele ha solo un anno e mezzo di esistenza, i superstiti rappresentano un terzo dei suoi abitanti. Da qui l’idea secondo cui lo Stato ebraico è una riparazione dell’Europa alle vittime ebree a discapito del popolo arabo.

In realtà, per comprendere il processo che ha portato alla nascita dello Stato ebraico bisogna risalire, ricorda Georges Bensoussan storico del sionismo, almeno alla fine del XIX secolo. Le istituzioni politiche sociali, culturali e militari del futuro Stato di Israele erano già presenti prima del 1940, le principali imprese economiche che facevano dello Yishuv, la comunità ebraica in Palestina, una realtà vitale erano state fondate nel corso degli anni Trenta, nel 1920 prende corpo la forza di autodifesa ebraica, Irgun Ha Hagana, il principale quotidiano dello Stato di Israele contemporaneo, Haaretz nasce nel 1919, l’essenziale della rete dei Kibbutzim diffusa su tutto il territorio è anteriore al 1948.

Già negli anni Venti del Novecento l’ebraico prevale sull’yiddish e torna ad essere una lingua parlata ben prima della catastrofe che colpisce il giudaismo europeo. Quando viene proclamata la indipendenza dello Stato ebraico nel 1948 ci sono già due generazioni di abitanti che si esprimono in questa lingua. A partire dal 1934 la radio ufficiale della Palestina trasmette tre ore e mezzo in ebraico. L’università ebraica sarà inaugurata a Gerusalemme nel 1925 e l’istituto Weizmann nel 1934. Tra il 1922 e il 1942 la popolazione ebraica dello Yishuv passa da 84000 a 484000: più di un terzo degli abitanti della Palestina. Insomma, ben prima del 1940 lo Yishuv rappresenta una società civile che amministra in modo autonomo i propri affari. In questa realtà, mentre centinaia di migliaia erano le domande di visto per la Palestina, il Libro bianco britannico del maggio del 1939 chiudeva le porte del paese alla immigrazione ebraica a pochi mesi dall’avvio della guerra!

Oggi la Shoah è parte della identità israeliana. Una memoria che verrà alla luce soprattutto negli anni Sessanta quando forte era il timore di essere stretti nella morsa dell’assedio arabo. Il ricordo della catastrofe passata è risvegliato dal timore di una catastrofe futura. Il 7 ottobre del 2023 è tornato l’incubo con il feroce pogrom di Hamas. Israele è stato costretto ad una nuova guerra. La posta in palio è quella di sempre: la sopravvivenza dello Stato degli ebrei. Contro un nemico spietato come Hamas che punta all’annientamento di Israele c’è da combattere. Fino in fondo. La sua sconfitta è la condizione della riapertura di una soluzione politica del conflitto. Insieme al combattimento, i leader e la società civile israeliani hanno la responsabilità, facendo appello ai valori della civiltà ebraica, di concepire una soluzione coraggiosa per costruire una pace difficile ma duratura. L’impresa appare ardua ma la strada è obbligata.