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Franco Marini, il grande uomo d'azione che voleva rimpiazzare la Dc

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(AGI) – La prima volta che Franco Marini si affacciò alla grande politica fu per interposta persona. La persona interposta era Ciriaco De Mita, l’occasione un congresso democristiano di metà degli anni ’80, al Palazzo dello Sport dell’Eur. De Mita, considerato all’epoca una sorta di Giulio Cesare del Partito e come tale già destinato alla coltellata (non c’è niente di più anarchico di un inquadratissimo quadro di partito cattolico), aveva già vinto l’assise, e si prese il gusto della replica puntuta.

Puntò infatti l’allora segretario generale della Cisl, che stava notoriamente dalla parte di Carlo Donat-Cattin a sua volta noto controcantista del segretario, e lo gelò. “Bada Marini”, disse tenendo il busto verso il microfono e la testa piegata verso la sua sinistra, a cercare l’obiettivo, “che la Democrazia Cristiana potrebbe non avere più bisogno di te!”. Frase oggi difficile da capire nella sua potenza dissolutrice, ma in realtà era un colpo di maglio. Voleva dire: ti mando a casa te e i tuoi sindacalisti tutti pipe, chiacchiere e distintivi. Non aveva considerato, il riconfermato Giulio Cesare, la reazione della massa.

L’assise parve scossa prima da un fremito, poi da un’onda, poi da un ruggito. Demitiani e antidemitiani scattarono gli uni contro gli altri con la baldanza dei vent’anni sulle ginocchia dei cinquanta, ma soprattutto con la ferocia atavica di chi finalmente ha una bella scusa per versare il sangue fraterno. Cazzotti, testate e camicie dai bottoni strappati. Con rispetto parlando: un bel casino. E lui, Franco Marini, imperturbabile se non leggermente sorridente. Tanto a certe situazioni c’era abituato: era un sindacalista.

In mezzo al bailamme una voce, rivolta al palco e a chi lo occupava, sintetizzò: “Imbecille! Ci farai perdere due milioni di voti”. Tanti ne valeva, a quell’epoca, la Cisl. E questa fu forse la presa di coscienza che determinò la sorte di Franco Marini, i suoi futuri ricordi e il suo mestiere. Del suo essere vicino a Donat-Cattin si è detto. Aggiungeremo solo che era iscritto alla Dc da quando aveva vent’anni, aveva fatto l’oratorio e frequentato l’Azione Cattolica. Tanto basti, per il curriculum. L’interessante infatti sarebbe venuto più tardi. Tant’è.

La Dc comunque continuò ad avere bisogno della Cisl e Marini si tolse la soddisfazione di diventare ministro del Lavoro, una volta lasciata la Cisl, dopo che De Mita aveva lasciato Piazza del Gesù. Inizia così, al crepuscolo degli dei della Prima Repubblica, il Marini politico che contava sui milioni di voti delle masse lavoratrici.

Ancora un paio di cenni curriculari: ottenuta la guida della corrente di Donat-Cattin, scomparso nel 1991, entrò in Parlamento l’anno successivo e Mino Martinazzoli, ultimo segretario democristiano, ebbe l’incauta idea di affidargli la segreteria organizzativa della rantolante Balena. Mai mollare a un sindacalista l’organizzazione, se ci tieni al posto di lavoro.

Nell’organizzare Marini era un fenomeno naturale, per di più con l’esperienza maturata nella vita pratica. Lasciò Martinazzoli a fare il re Dagoberto, nell’intanto si prese tutto il resto: persino i pullman delle manifestazioni in piazza calcolava con maestria.

L’altro intanto leggeva Manzoni. Quando giunse all’ultima pagina, al “non si è fatto apposta”, Martinazzoli decise che la Dc non esisteva più. Pipino il Maggiordomo gliela lasciò sciogliere così, senza una mozione e senza un perché: tanto aveva già in mente un calcolo ed una struttura, l’una legata all’altro in modo indissolubile sulla base di una premessa. La premessa era: la politica aborre il vuoto e lo spazio della Dc qualcuno lo dovrà occupare. La struttura era quella che lui aveva plasmato sul modello cislino. Infine il calcolo: se l’unica struttura restante in questo deserto centrista è quella sindacale, vuol dire che noi abbiamo a disposizione tanti ma tanti ma tanti voti. Una manciata di anni prima li si calcolava, appunto, in due milioni.

Emerse però una variabile indipendente chiamata Forza Italia. Il Partito Popolare, nato dalle ceneri della Dc, si voltò a guardare i suoi voti e non li trovò più. Si iniziò a capire una triste realtà, che pure sarà negata per tutti i decenni successivi: nemmeno la Cisl aveva più il controllo del suo popolo. Marini continuò a occuparsi di organizzazione anche sotto la segreteria di Rocco Buttiglione, la cui elezione aveva festeggiato con un abbraccio, pieno di passione, con Formigoni.

Ma quando il professore decise di spostare il partito verso Berlusconi lui non ci stette. Era della sinistra sociale: gli piaceva da matti bombardare il quartiergenerale, ma mica andare a destra. Insieme a Emilio Colombo e Gerardo Bianco fu tra quelli che si opposero all’operazione “Da Striscia la Notizia a striscia in via dell’Anima” (questo il nomignolo appioppatole). Il Ppi non si mosse, quindi si spaccò praticamente in due.

Bianco prese la segreteria, e con lui il Partito Popolare per l’unica volta nella sua breve vita guadagnò voti invece di perderne. Ma ad un certo punto divenne stanco e dovettero sostituirlo. Con Lui. Era il 1997; nel 1999 però la mollò in favore di Pierluigi Castagnetti e a discapito di un Dario Franceschini che all’epoca faceva del fattore identitario cattolico la cifra della propria candidatura.

Franceschini si rese subito conto che la carta non funzionava più e tre anni dopo, al definitivo scioglimento del PPI per confluire nella Margherita, era diventato di quest’ultima acceso sostenitore. Sia detto per inciso: la Margherita aveva un nuovo segretario organizzativo. Indovinate chi? Franco Marini. Dal sostanziale fallimento della sua segreteria del Ppi e dal suo successivo ritorno al ruolo di organizzativo si evince una valutazione. Questa: uomo d’azione, in fondo non lo era di progetto. Ma la politica è anche ragionamento: se avesse ascoltato un po’ più De Mita, invece di farlo arrabbiare, lo avrebbe capito subito. Il suo progetto politico, che poi era quello di rimpiazzare la Dc con un’altra formazione centrista sulla scorta del potere organizzato del sindacato, alla fine fallì perché non basta calcolare i pullman e le bandiere, ma bisogna anche elaborare contenuti.

Ma non siamo alla fine: esaurito un mandato da europarlamentare Marini divenne niente meno che Presidente del Senato nel 2006. L’elezione fu contrastata, vuoi per l’esiguità della maggioranza del centrosinistra che lo sosteneva, vuoi perché abilmente il centrodestra gli aveva candidato contro Giulio Andreotti.

Vinse di straforo, sotto l’occhio vigile di Oscar Luigi Scalfaro, e si permise una perfidia (non l’unica nella sua lunga carriera politica). Ringraziò pubblicamente Mirko Tremaglia, vecchia gloria missina, per aver fatto di tutto per concedere entro quell’anno il voto agli italiani all’estero. Giusto in tempo per regalare al centrosinistra la maggioranza e a lui Palazzo Madama. Tremaglia ascoltò con l’aria affranta.

Due tentativi falliti segnarono gli anni successivi: quando ricevette un incarico esplorativo per rimediare alla crisi del governo Prodi II; quando fu impallinato in modo miserabile da che era candidato ufficiale alla Presidenza della Repubblica, nel 2013. Dette la colpa a Renzi, ma intanto prima aveva ricevuto una telefonata di incoraggiamento e la cosa gli aveva fatto piacere, tanto da raccontarlo a tutti.

Lo aveva chiamato Ciriaco De Mita. Non c’erano più due milioni di voti (e neanche i 750 per andare al Quirinale, se per questo), ma qualcosa era rimasto, se non altro dal punto di vista umano. I lupi d’Irpinia hanno una loro nobiltà, quelli della Marsica una loro grandezza. Peccato se ne siano accorti, gli uni e gli altri, quando era ormai troppo tardi.

Vedi: Franco Marini, il grande uomo d'azione che voleva rimpiazzare la Dc
Fonte: politica agi


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