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Francesco Paolo DI BLASI, il primo separatista siciliano

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di Cinzia Cassani

Nacque a Palermo nel 1755, secondogenito di Vincenzo ed Emanuela D’Angelo.

La famiglia, patrizia, era al centro della vita culturale palermitana. Vincenzo, nato a Palermo il 1º sett. 1709, aveva compiuto studi giuridici e ricoperto, in città, cariche pubbliche. Fu infatti dal 1747governatore del Monte di pietà, nel 1752senatore e da ultimo, nel 1755, sindaco. Studioso di lingua francese e latina, i suoi interessi furono prevalentemente letterari. Nel 1734 prese parte alla disputa che suscitò, a Palermo, la pubblicazione di un opuscolo, Lu vivu mortu, effettu di lu piccatu di la carni, una filastrocca in versi siciliani di L. Sarmento tutta volta contro le donne. Risposero, ancora in versi siciliani, Geneviefa Bisso e Dorotea Isabella Bellini Guillon e, in prosa italiana, il Di Blasi con due operette, La verità manifesta in favore delle donne (Palermo 1735) e, nel 1737, una Apologia filosofica storica, in cui si mostra il sesso della donna superiore a quello degli uomini (Catania 1737), nella quale raccolse fatti e motti di donne illustri (D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, I, Palermo 1969, p. 179). Accademico degli Ereini e del Buon Gusto, cultore di poesia siciliana, fu promotore e socio attivo dell’Accademia dei Pescatori Oretei istituita nel 1745 con l’intento di coltivare esclusivamente la poesia dialettale siciliana. Nel 1753 promosse una raccolta di canzoni siciliane, delle quali veniva data anche la traduzione in versi latini. e di molte delle canzoni e versioni latine fu autore egli stesso (Scelta di canzoni siciliane sacre e profane raccolte e fatte tradurre per opera del patrizio palermitano Vincenzo di Blasi e Gambacorta, Palermo 1753). Amico del marchese di Villabianca, Vincenzo morì, inaspettatamente, in casa di lui il 2 dic. 1756, ad appena un anno dalla nascita di Francesco Paolo.

Questi compì studi legali e letterari e a tutela della sua giovinezza ebbe gli zii paterni Salvatore e Giovanni Evangelista, benedettini, che furono tra i principali esponenti di quel gruppo di uomini di cultura che con grande energia e abilità aveva combattuto contro la tradizione scolastica, l’ignoranza e la superstizione, ispirandosi ai maurini e al regalismo tanucciano, propugnatori di una riforma moderata che si era richiamata al Muratori.

Fu tramite loro che il D. trasse le prime suggestioni intellettuali dalle discussioni – e reazioni – che, a partire dagli anni Settanta, ebbero origine, nell’isola, da una prima percezione dei limiti di quel tentativo di riforma civile, in particolare a seguito dei moti di Palermo del 1773 che, manifestando, al contempo, l’urgenza estrema di trasformazioni di ordine giuridico, economico e politico e le resistenze che annullavano i progetti di riforme economiche e sociali, riproposero, in termini più radicali, il problema dei rapporti tra società e Stato, tra etica e politica.

Nel 1778 il D. pubblicò negli Opuscoli di autori siciliani (XIX [1778], pp. 1-24) una breve Dissertazione sopra l’egualità e ladisuguaglianza degli uomini in riguardo alla loro felicità.

L’occasione polemica gli fu porta dal trattato dell’abate A. Pepi, Dell’inegualità naturale fra gli uomini, comparso a Venezia, nel 1771e riedito a Palermo in quel tempo, una riproposizione delle tesi del dispotismo illuminato in cui, a fondamento dell’obbligazione politica, il Pepi, polemizzando con Rousseau, poneva lo stato di ineguaglianza naturale degli uomini nei cui confronti interviene, con funzione equilibratrice di tutela giuridica, l’apparato legislativo dello Stato.

La Dissertazione è un rapido sommario di brani tratti dal Discours di Rousseau. Vi si sostiene che “la disuguaglianza negli uomini ripugna alla ragione sufficiente e la natura tende generalmente all’uguaglianza”. È dallo stato sociale e dal suo sviluppo che provengono tutti i mali precedentemente ignoti all’uomo, quasi vendetta che la natura si prende per essere stata violata nei suoi principi. Con il crescere delle conoscenze nascono nuovi desideri che, negati o appagati, nel loro perpetuo figurarsi, formano l’infelicità di ognuno. In tal modo l’insoddisfazione diviene per ricchi e poveri il tratto comune del vivere associato e li rende nuovamente uguali per la distanza che li separa, entrambi, dalla felicità che è equilibrio di desideri e capacità di soddisfarli. Lo scritto testimonia la totale adesione del D. alla teoria dell’eguaglianza di Rousseau e la tesi che ne scaturisce è quella di una società fondata sulla solidarietà tra i ceti nella quale le risorse disponibili vengono impiegate al soddisfacimento egualitario delle necessità sociali.

Nel 1781 l’avvento, a viceré, del marchese D. Caracciolo nel congiungere in ipotesi di azione i diversi motivi del pensiero riformatore isolano segnava una svolta sul terreno politico quanto su quello culturale. Nei cinque anni di vicereame del Caracciolo il D. non ricoprì incarichi ufficiali ma esercitò la professione forense alla quale la fortuna non cospicua della famiglia lo aveva destinato; ma è da credere che partecipasse pienamente ai motivi ideali che ispirarono i tentativi di riforma del viceré e in particolare la lotta alle giurisdizioni baronali, condotta dal 1784 al 1786, con cui si voleva affermare il diritto di intervento del potere statale nelle sue competenze tradizionali, la finanza e la giustizia. Sono tutti motivi che si ritroveranno in un Saggio di proposte di riforma della legislazione isolana pubblicato dal D. in anni più tardi ma che, in parte, riflette quella esperienza; e nell’aspro confronto che si determinò tra viceré e baronaggio egli, insieme con G. A. De Cosmi, C. Guerra e G. Costanzo, fece parte di quell’autorevole gruppo d’opinione che il Caracciolo, in opposizione alle resistenze che le sue iniziative incontravano in Sicilia e a Napoli, si sforzò in tutti i modi di suscitare a sostegno della propria politica riformatrice.

Nel 1785 il D., con l’appoggio del consultore S. Simonetti, aveva proposto al Caracciolo di pubblicare una raccolta delle prammatiche del Regno, edite ed inedite. L’anno successivo il nuovo vicere, F. M. V. d’Aquino principe di Caramanico, comunicava al D. un chirografo regio a data 18 giugno con il quale gli affidava l’incarico di raccogliere in edizione tutte le prammatiche del Regno comprese quelle cadute in disuso “nella intelligenza, però, che nella ristampa da farsi si abbia a premettere un discorso, che contenga la vera idea del Diritto Sicolo nascente dalle Costituzioni per ovviarsi agli errori, che vi si sono introdotti per la falsa intelligenza, che per imperizia si è data alle leggi del Regno nelle passate edizioni contro l’aperto senso delle medesime, e contro la mente de’ legislatori” (F. Guardione, Scritti, p. LXI). Era chiara l’intenzione del governo napoletano di voler adeguare sul terreno giuridico la feudalità siciliana a quella napoletana; di sottoporre al vaglio della critica le fonti storiche e giuridiche sulle quali si fondavano le prerogative dei baroni e le istituzioni basilari del Regno, al fine di confutare quella tesi elaborata intorno al 1740 secondo la quale si attribuiva al diritto siciliano un preciso carattere nazionale, differenziandolo, specie nella sua parte feudale, da quello vigente nel continente. Nel 1788 il D. approntava il Discorso da premettere all’edizione delle prammatiche e lo sottoponeva al giudizio del marchese Simonetti.

In esso tracciava la storia della legislazione siciliana a partire da Federico II, ribattendo le tesi di C. Di Napoli e F. Testa sulla natura del feudalesimo siciliano. In particolare, sulla interpretazione del capitolo Volentes, in opposizione alla tradizione dei feudisti isolani, il D. negava, sulla scia delle argomentazioni del consultore Simonetti, che in virtù di quel capitolo i feudi fossero non solo divenuti alienabili ma si fossero, anche, tramutati in allodi, rivendicando in tal modo i diritti del regio fisco al quale i feudi dovevano tornare nel caso in cui il signore fosse morto senza legittimi successori.

Lo scritto ebbe l’approvazione del Simonetti e piacque al Caracciolo, che in una lettera del 23 dic. 1788 al Caramanico lo lodava “non solo per l’ordine e per l’eleganza con cui è disteso, ma molto più per la ben rilevata e meglio difesa reduzione de’ fondi alienati al Regio Demanio, conquisi e distrutti affatto i pregiudizievoli principi del Napoli e del Testa”, e raccomandava di “premiare l’industria e lo zelo di questo avvocato con una Toga corrispondente, anche in considerazione del danno, che inevitabilmente ne verrà per parte del Baronaggio, a risentire nell’esercizio della sua professione” (E Catalano, Illuministi e giacobini…, p. 64).

L’anno successivo il D. ottenne la carica di giudice della Gran Corte pretoriana di Palermo. Nel 1790, nella Nuova Raccolta diopuscoli di autori siciliani (III [1790], pp. 213-264), egli pubblicava il Saggio sopra la legislazione di Sicilia.

Dall’esperienza, che l’incarico della pubblicazione delle fonti statuali gli aveva consentito di fare, il D. aveva tratto la necessità della compilazione di una nuova opera legislativa “formata per adattarsi ai costumi di questo secolo”. Alle costituzioni, infatti, che avevano riordinato tutta la legislazione del Regno si aggiunsero poi, disordinatamente, le prammatiche, gli editti, le lettere regali: “quando si arriva a questo stato, non bisogna più riformare moderare aggiungere sottrarre. Bisogna commettere ad un filosofo la nazione. Con occhio saggio e penetrante egli deve avere in mira il clima, i costumi, le relazioni con le altre societa del mondo, figurarsi di essere al mondo nuovo e dettar da capo il codice di quella legislazione che deve regolarlo”. Il nuovo codice, secondo quell’ideale penetrato da tempo nella cultura europea, doveva essere breve, esplicito e chiaro in modo da lasciare poco spazio all’interpretazione giurisdizionale, dottrinale e forense. Definitine i caratteri, il D. ne enunciava i principi in rapporto al quadro ideale di una società profondamente rinnovata. Alla tensione etico-politica del suo primo scritto, coerente, forse, con la severa intenzione moralista della sua prima giovinezza, subentrava ora l’attenzione agli aspetti economico-sociali della società siciliana di quegli anni, per la quale il D. avanzava proposte di rinnovamento che seguivano la trama del pensiero illuminista – soprattutto napoletano – contemporaneo. Dal Filangieri, che aveva dedicato il quarto libro della Scienza della legislazione a un programma di istruzione nazionale, e da G. A. De Cosmi, che nella politica scolastica siciliana degli anni Ottanta ebbe parte rilevantissima, il D. traeva la nozione della priorità ideale dell’educazione, “uno dei principali oggetti del legislatore” che avrebbe dovuto essere pubblica, eguale per tutti e obbligatoria.

Rispetto al suo primo saggio è ormai scomparsa ogni istanza egualitaria, la distinzione gerarchica è ritenuta utile e necessaria alla società, che altrimenti rovinerebbe in una anarchia letale. Ma le distinzioni debbono avere una base oggettiva e reale, per cui, rifiutando ogni discriminazione castale, il D. proponeva di stabilire i ruoli sociali degli individui sulla base del censo, sistema che avrebbe stimolato ciascuno a una maggiore attività. Altri punti toccati dal D. erano il problema fiscale, per cui proponeva l’abolizione di tutte le gabelle e la loro sostituzione con un’imposta personale pari a tante unità di reddito giornaliero quante fossero sufficienti a coprire le spese della comunità, e quello della giustizia. A questo proposito egli concordava con il Beccaria nel dichiararsi contrario alla tortura e alla pena di morte, che voleva sostituiti con i lavori forzati nei campi e nelle miniere, dal momento che concepiva la pena non come “pubblica vendetta”, ma come strumento di “edificazione pubblica”. Egli chiedeva anche la riforma dell’ordinamento giudiziario e delle procedure civile e penale.

Negli anni successivi uscirono finalmente i primi due volumi delle Pragmaticae sanctiones Regni Siciliae, quas iussu Ferdinandi III Borbonii nunc primum ad fidem authenticorum exemplarium in regiis tabulariis existentium recensuit Fr. Paulusde Blasi (Panormi 1791-93), nel primo dei quali erano ordinate cronologicamente le prammatiche dal 1339 al 1538, nel secondo quelle fino al 1579; entrambi erano corredati dalle Notizie dei re di Sicilia, brevi cenni storici sui sovrani che avevano regnato tra il 1060 e il 1598, dovuti allo zio del D., Giovanni Evangelista Di Blasi.

In questo periodo il D. cominciò ad ospitare in casa propria l’Accademia siciliana, sorta, per sua iniziativa, alcuni anni prima, a continuazione di quella dei Pescatori Gretei, che aveva avuto come promotore il padre Vincenzo.

A proposito di questa accademia, che contava fra gli ascritti Giovanni Meli, Francesco Carì, Mariano Scasso e Francesco P. Nascò, il Villabianca nel suo Diario notava che il principe di Funari non si era sentito di continuare le riunioni di essa in casa propria poiché “quest’Accademia Siciliana è impossibile di potere avere luogo tra le formate Accademie di Palermo … per causa di urtarne l’istituzione al sistema e pensare del Governo che non vuole in città unioni particolari di persone” (V. La Mantia, p. 47).

Era questo il segno del clima che mutava, nonostante l’ancor mite governo del Caramanico, e il solo indizio a noi giunto dello svolgimento delle idee del D. dalla serena fiducia nella volontà riformatrice della monarchia a posizioni di estremo radicalismo. E, tuttavia, al Caramanico egli dedicava l’ultimo suo scritto, posto ad introduzione della Raccolta di poesie siciliane fatte per il felice ristabilimento da un grave morbo sofferto nel 1794 dal principe di Caramanico, viceré di Sicilia (Palermo 1794), in cui elogiava l’opera riformatrice del governo. Morto il Caramanico il 9 genn. 1795, gli succedeva, con la carica di presidente del Regno, l’arcivescovo di Palermo, Filippo Lopez y Royo, uomo tirannico, diffidente per temperamento e contrario all’opera riformatrice dei due ultimi viceré. Fu probabilmente questo repentino trapasso a provocare nel D., influendo anche sul piano emotivo, una reazione forte fino all’estrema rottura.

La sera del 31 marzo 1795 la confessione di un operaio argentiere, Giuseppe Terriaca, resa al parroco Pizzi, convalidata da quella di un caporale del corpo degli Svizzeri, rivelava l’esistenza di un piano di sollevazione progettato dal D. al fine di instaurare una repubblica in Sicilia; tale rivolta sarebbe dovuta scoppiare il 2 o il 3 aprile con la partecipazione di contadini provenienti dalle campagne circostanti e di alcuni soldati delle scarse truppe di stanza a Palermo.

Essendo irreperibili gli atti del processo, allo stato attuale la ricostruzione degli avvenimenti è possibile sulla base delle testimonianze del marchese di Villabianca (ampiamente utilizzate da F. Guardione, La Sicilia…), del carteggio tenuto dai rappresentanti del governo di Sicilia con il ministro Acton e con il principe di Castelcicala (ibid., pp. 65-94) e di una relazione stesa nel luglio 1795 dalla giunta dei presidenti e consultori di Palermo su richiesta del governo napoletano (ibid., pp. 98-116).

La notte dello stesso 31marzo il D., insieme con pochi altri congiurati, veniva arrestato e rinchiuso nel carcere di Castellammare. Interrogato e sottoposto a tortura, non fece alcuna ammissione, né dalla perquisizione subito effettuata in casa sua fu rinvenuta alcuna carta che avesse connessione con la congiura. La presenza del D. fra i congiurati fece temere, a causa dei suoi cospicui natali, del prestigio dei suoi studi e delle sue relazioni, l’esistenza di un vasto piano cospirativo con la partecipazione di militari e di alti funzionari. I sospetti non risparmiarono neppure l’avvocato fiscale della Gran Corte, F. Damiani, che pure aveva ordinato l’arresto del D., e il capitano di Giustizia, duca di Caccamo, che, invece, per antica amicizia, si era rifiutato di eseguirlo. Si indagò su possibili collegamenti con aristocratici napoletani, come il principe di Belvedere, e si guardò con qualche diffidenza al rientro concomitante della flotta francese nel porto di Palermo di ritorno da Tolone.

Il 13 aprile l’istruzione del processo, tolta al Damiani, venne affidata al giudice della Gran Corte criminale, il marchese G. Artale, che godeva della piena fiducia del governo. Questi ricominciò tutto daccapo, riesaminando le carte, interrogando nuovamente i testimoni e i rei confessi, ordinando una nuova perquisizione in casa del D., sottoponendo questo ad ulteriori torture; ma non riuscì ad ottenerne alcuna ammissione. Per motivi di sicurezza il D. fu trasferito nella caserma di S. Giacomo, nel carcere militare detto la Bomba, per essere processato. Il 15 maggio vennero resi pubblici gli atti di accusa e il 18 fu discussa la causa. Lo stesso giorno fu pronunciata la sentenza, redatta dall’Artale: essa decretava la decapitazione per il D., la forca per Bernardino Palumbo, Giulio Tinaglia e Benedetto La Villa e pene minori per gli altri imputati. Per il D. era previsto anche il tormento della corda (“torqueatur tamquam cadaver in capite alieno ad vocandos complices”), poi commutato nella pena del fuoco: ma neppure questa tortura poté indurlo a fare ammissioni.

La pena di morte per lui e per gli altri condannati fu eseguita il 20 maggio 1795 nel piano di S. Teresa fuori Porta Nuova a Palermo.

Secondo il Villabianca, nelle ore che precedettero l’esecuzione il D. avrebbe scritto due sonetti e una lettera al presidente del Regno, mons. Lopez, in cui manifestava sentimenti di pentimento e affermava di non aver altri complici oltre a quelli già scoperti (il testo in La Mantia, pp. 62 s.).

I contemporanei giudicarono la partecipazione del D. alla congiura come frutto di un momento di esaltazione, di uno sbandamento dal retto pensare; questo giudizio fu ben espresso, per tutti, dallo zio del D., Salvatore Maria Di Blasi: “Non solo i parenti e gli Amici, ma chiunqua lo conoscea lo credea incapace di tale eccesso; molto più che oltre di un bel talento pacifico, nemico di attacchi, avanzato nella magistratura legale, incaricato dal Re di raccogliere … le Prammatiche di Sicilia, di cui ne avea terminato due tomi in foglio, e già stava per cominciare il terzo ed ultimo, beneficato dalla corte, e giovine savio, non avea giammai dato indizio di tal follia” (Guardione, Di un tentativo, p. 792). Una recente interpretazione delle vicende del D., dal viceregno del Caracciolo fino alla morte, è nel romanzo di L. Sciascia Il consiglio d’Egitto, Torino 1963.