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Food: è l’Arancina day a Palermo, il trionfo del femminile

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Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda metà del Novecento, e molti in varie regioni italiane continuano tuttora a usare arancio per dire arancia. Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile usato per indicare la prelibatezza. I dizionari concordano sul genere di arancino, ma le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella lingua italiana, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto.
Si può ipotizzare, secondo l’Accademia della Crusca, che “il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti palermitani che, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso”. Dunque, arancina: la radicale diversità dell’esito locale può aver fatto sì che quando si è assunto il termine italiano per indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata arancia, da cui arancina. “Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard”.
E’ il 13 dicembre. L’Arancina day di Palermo. L’attesa e la preparazione durano giorni e le conseguenze altrettanti. Alla carne o al burro, secondo tradizione. Ma se ne hanno e se ne fanno per tutti i gusti, spinaci, ricotta, salmone, besciamella, funghi, salsiccia… e cioccolato per i più sfacciati. E così piovono palle di riso, come se non ci fosse un domani. Del resto è il giorno di Santa Lucia, legato al miracolo della fine della carestia nel 1646, niente pane e pasta. Si dice, infatti, che proprio in quel giorno fosse giunta al porto una nave carica di grano. Tanto era affamata la popolazione, che il grano non venne usato per farne farina, ma bollito e condito solo con dell’olio. Dunque allora era davvero e giustamente festa, ma pur sempre frugale. Secoli dopo è il trionfo della gola senza vergogna né rimorso e tonnellate di riso vengono sacrificate alla corte della regina palermitana del cibo da strada.
Ah, e guai a evocare gli arancini, alla maniera dei catanesi. L’arancina è femmina, è rotonda, è dorata, è fritta, è generosa, non bada al peso, crea convivenza, perché ci si raduna in gruppi attorno all’impegnativo pasto che fa tornare ragazzi. La ghiotta questione è stata scavata anche dall’Accademia della Crusca che spiega come gli arabi avessero l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo. Il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’Isola ne è sempre stata ricca. Poi della prelibatezza si perdono le tracce nei ricettari. Si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata. (AGI)