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FILOSOFIA la partecipazione

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Nelle sopra relazioni si è detto, da altre inquadrature, che lo stesso oggetto può essere esperito in misura diversa relativamente alle diversità dei soggetti: lo stesso può essere diverso per molti; parimenti a come lo stesso numero dà risultati diversi proporzionalmente al numero con cui viene messo in relazione. Detto in toni ideali: “lo stesso” è lo stesso se preso per sé ma diverso nel risultato della sua relazione con altro (es. per lo stesso 2, 2+8, 2/3 ecc). Talché:

Principio di partecipazione: Lo stesso può essere predicato da molte cose, cose separate sotto alcuni aspetti ma unite in quello stesso. Così lo stesso rimane unito e se stesso, lasciando l’opportunità ai molti di predicarlo in loro personale relazione.

In questo principio si nota, eminentemente, l’unione dei molti nello stesso, per la quale i molti sono necessariamente simili sotto certi aspetti (per stesso universale) e al tempo stesso dissimili sotto altri (per proprio individuale): simili e dissimili sotto rapporti diversi. Tale principio si staglia, anzitutto, sciogliendo uno dei nodi del Parmenide di Platone3, tramite la seguente forma:

Lo stesso A è predicabile da molti soggetti B. Logicamente si dice B predica A, ovvero A(B);

I soggetti B sono separati sotto alcuni aspetti ma uniti sotto quello stesso A. Matematicamente si dice che A è l’insieme di B, ovvero A={B}.

Questa logica-matematica (Ceravolo 2016, pp. 114, 119) ha codesta forma A(B) « A={B} che, applicata in codesto contesto, dice: se i diversi soggetti B possono predicare A ognuno in propria misura A(B), allora vi è un A che è lo stesso per tutti A={B}. In questo modo, la proprietà della partecipazione, fra A e B, subisce un’abilitazione formale concretamente osservabile: messa in nuce la possibilità dei rapporti fra piani diversi! Si sta dicendo che il partecipato oggetto sta nel partecipante soggetto e viceversa, trovando nella migrazione di sé (generale oggetto) verso l’altro (particolare soggetto), e viceversa, la sua ivi necessità formalmente insuperabile. Si sta dicendo che ogni diverso soggetto predica, ognuno a modo suo, l’interezza e unicità dello stesso oggetto, così da averlo immediatamente in forma personale, e insieme con l’aspirazione a possederlo in modo sempre più obiettivo, là, nella possibilità che il soggetto e oggetto possano coincidere, scambiarsi o altro. Si sta dicendo che a essere “i molti” sono le predicazione del “lo stesso” (non quest’ultimo) e che in quello stesso trovano l’unità del proprio molteplice. Concretamente si dice che lo stesso oggetto viene interiorizzato dai diversi soggetti che lo portano in seno relativamente alle opportunità dell’oggetto e alle proprie capacità soggettive; così che l’oggetto rimanga uno e se stesso mentre molte siano le sue predicazioni. Astrattamente tale partecipazione di A in B, cioè A(B), significa che B è un modo di A, cioè A={B}.

  1. Argomento della natura

Ciò che influenza il proprio divenire è esperienza. Le cose che incontriamo nel mondo sono esperienza, cioè ci influenzano più o meno sensibilmente. (cfr. Mondo 2016)

L’esperienza può avere tre nature:

Esperienza fisica degli esseri meccanici, ove la stimolazione dei sensi reagenti (es. atomi) provoca reazioni corporee e l’insieme complessivo di questi processi meccanici causa un’esperienza fisica;

Esperienza di vita degli esseri istintivi, ove la stimolazione dei sensi viventi (es. olfatto) provoca sensazioni corporee e l’insieme complessivo di questi processi istintivi causa un’esperienza di vita;

Esperienza cosciente degli esseri mentali, ove la stimolazione dei sensi pensanti (es. cervello) provoca ragionamenti astratti e l’insieme complessivo di questi processi mentali causa un’esperienza cosciente.

Nota bene: noi conosciamo il cervello quale strumento fisico fonte di pensiero. Infatti, negli uomini, tutte le prove affermano della correlazione fra il cervello fisico e il pensiero astratto, e nessuna prova ci dice che, in noi, possa non essere il cervello un tramite fisico del pensiero astratto. Oltremodo in questo schema trova seguito un’idea di appercezione (Leibniz docet) intesa come quella percezione che diventa cosciente. Tale appercezione è ciò che distingue i soggetti pensanti da quelli solamente viventi o ancor più solo meccanici. La percezione (ed esperienza) di quest’ultimi, infatti, rimane in uno stato di incoscienza se priva di un proprio pensiero. Mentre il pensiero è ciò che può trasformare la percezione fisica in appercezione, appunto prendendone coscienza: «l’appercezione è un processo riflessivo e razionale del [proprio] io che prende coscienza di sé e delle sue percezioni» (A. Gentile 2016, p. 60); un atto di coscienza.

Ogni esperienza soggettiva è mediata dai sensi del soggetto (es. tatto) e, nei soggetti pensanti, anche dalla razionalità del suo pensiero; tale che, la stessa cosa che alcuni potrebbero vedere di colore verde, altri potrebbero vederla rossa o in scala di grigio o, addirittura, potrebbero anche non riuscire a vederla per un diverso apparato percettivo. Per “apparato percettivo” intendo il complesso degli organi reagenti e viventi del soggetto capaci di acquisire immediatamente i valori sensibili delle cose (es. vista). Da ciò si esclude il cervello che riceve mediatamente il sensibile (dai sensi reagenti e viventi) piuttosto che acquisirlo immediatamente, oltreché trasmettitore di ordini. E che dire della razionalità della mente? Non di certo percepisce il sensibile, quello spetta ai sensi, ma è atta a processarne la ragione: la razionalità è la capacità astratta di astrarre dagli oggetti fisici la ragione per cui sono tali.

Dire che in natura c’è una reciproca influenza fra esperente ed esperito, significa dire che oltre ai sensi e razionalità dell’esperente, a influenzare la percezione sono anche i valori dell’oggetto esperito e, non meno, l’ambiente in cui, soggetto e oggetto, si esperiscono. Per l’ambiente di partecipazione, oh natura!, il medesimo valore può essere esperito in misura diversa relativamente al luogo in cui viene osservato o da cui viene osservato. Sicché, per esempio, relativamente al luogo in cui viene osservato, il medesimo bastone può vedersi dritto se tenuto in aria o storto se tenuto immerso nell’acqua. Sicché, per esempio, relativamente al luogo da cui viene osservato, il medesimo tavolo può apparire stretto e lungo oppure largo e corto. Tutto ciò si chiama “relativismo della percezione” dove non vi è inganno o illusione nell’apparire della natura, ma il naturale risultato di una o l’altra interazione fra stati di cose, loro apparati di percezione, razionalità e luoghi (in cui e da cui) di osservazione. Al più l’illusione e l’inganno stanno nelle interpretazioni che si hanno della natura quando l’interpretazione si dice erronea e quindi illusoria e ingannevole, o alla peggio stanno dove un essere (ontologico) cerchi di far credere qualcos’altro da ciò che è (o presume sia).

 

Di  Vito J. Ceravolo fonte@ filosofiaenuovisentieri.com/