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Fenomenologia di Khaby Lame

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Khaby è un “everyman”, un ragazzo come tanti che, grazie ai social network, e in particolare TikTok, assurge ad una fama straordinaria e riesce a superare per numero di follower persino una influencer come Chiara Ferragni. L’uniformità e la banalizzazione si esaltano sui social e, confermando ancora una volta la paradossalità e l’assurdità del nostro mondo, diventano eccellenza

di Mauro De Virgilio

In un’epoca carica di paradossi e assurdità, non stupisce il fatto che l’italiano più famoso al mondo (o, per meglio dire, più seguito) non sia italiano, almeno per l’anagrafe del Bel Paese. Parliamo di Khabane (detto Khaby) Lame, autentica star del social del momento, TikTok.

Nei suoi TikTok (brevi filmati, spesse volte accompagnati da musica , che possono riprodurre scene comiche) Khaby deride i tutorial sul web che danno soluzioni astruse a problemi quotidiani risolvibili con estrema semplicità, il tutto condito da una gestualità e da una mimica facciale che hanno dell’invidiabile.

Khaby è – come Umberto Eco definiva Mike Buongiorno nella celebre “Fenomenologia” – un “everyman”: un uomo, anzi un ragazzo, come tanti, che grazie all’odierno sostituto della televisione e dei quiz che sono i social network (e in particolare TikTok) assurge alla fama e riesce a superare persino una influencer come Chiara Ferragni per numero di follower.

Oltre a strapparci un sorriso, la storia personale di Khaby riesce a strapparci anche una lacrima perché ci ricorda l’assurda condizione dei figli di migranti che, pur essendo perfettamente integrati nel tessuto socio-culturale italiano, non sono riconosciuti dallo Stato italiano come suoi cittadini. Tuttavia, Khaby ci strappa anche una riflessione: l’estrema banalità dei contenuti dei TikTok di Khaby è ciò che gli ha garantito la celebrità. Non i “15 minuti di celebrità” che, secondo Andy Warhol, ognuno di noi avrebbe avuto nel mondo fatato della civiltà dei consumi, ma i 15 secondi di un TikTok, in cui – mettendo a nudo l’idiozia e la banalità imperanti nel mondo dei social – mostra la sua stessa banalità e la banalità degli stessi social network come TikTok.

Se a diventare, così, famoso è chi in fondo non ha nulla da comunicare, perché tentare di utilizzare quegli stessi social – strumenti portentosi di comunicazione – per diffondere sapere o tentare di “fare rete” non solo virtualmente? In fondo, a essere premiata è ancora una volta non l’eccellenza, ma la mediocrità massima, che ha come suo unico valore aggiunto la consapevolezza di essere mediocre e di saper prosperare dalla sua stessa mediocrità.

Il buon Khaby, in fondo, non è il male, ma il sintomo di un male che i mezzi di comunicazione di massa portano con sé da ormai 70 anni e che i social come TikTok stanno pericolosamente accelerando: l’uniformità e la banalizzazione, il tendere verso la mediocrità come massima condizione di felicità che, confermando ancora una volta la paradossalità e l’assurdità del nostro mondo, diventa eccellenza.