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Fede, diplomazia e globalizzazione

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La diplomazia è il guanto di velluto su mano d’acciaio degli Stati. Così funziona da sempre. Ma se uno Stato non ha l’acciaio?  È noto che il Papa non dispone di proprie legioni. Lo fece notare un irridente Stalin a Yalta nel 1945. Pio XII gli restituì l’ironia, con pontificia malizia, quando il dittatore morì nel 1953: “Ora Stalin vedrà quante divisioni abbiamo lassù!”.

Più “fortunati” i Papi fino al 1870, quando ancora disponevano di truppe, che però non bastarono alla bisogna. Sono rimaste oggi solo quelle svizzere, moderna polizia, ma con vestiti e armamenti démodé. I Legionari di Cristo non sono dei Cristeros armati, sono solo una congregazione religiosa.

Eppure la Chiesa universale, con il suo miliardo e 376 milioni di fedeli – cifre fornite in occasione della 97sima Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre 2023 – dispone di un suo sperimentato corpo diplomatico, distribuito tra Nunziature, Legazioni e Ambasciatori itineranti.

In quanto Stato della Città del Vaticano, la Chiesa cattolica è un Osservatore permanente all’ONU – unica religione mondiale con tale privilegio – e come tale può partecipare attivamente alle Conferenze dell’Onu e influire sui lavori e sulle posizioni finali che vengono adottate.

Con questo Corpo diplomatico la Chiesa gestisce le Intese tra Chiesa e Stato in ogni parte del mondo – 14 Accordi in Africa, 12 in America latina, 11 in Asia, 25 in Europa – allo scopo “facilitare l’annuncio del Vangelo”.

L’azione diplomatica della Santa Sede ha subito una cesura con il Concilio Vaticano II. Prima, la diplomazia vaticana difendeva, nei rapporti con gli Stati, soltanto lo spazio di libertà della Chiesa cattolica, magari riuscendo a istituire una condizione di privilegio per i cattolici. Fino ai silenzi di Pio XII sul tragico destino di altre fedi. Dopo il Concilio, per impulso di Paolo VI, la Chiesa si è orientata a rivendicare la libertà religiosa per ogni uomo, non solo per i cattolici.

Il passaggio cruciale è quello della Conferenza di Helsinki del luglio/agosto 1975, nel corso della quale il Card. Casaroli e Mons. Achille Silvestrini chiesero e ottennero l’affermazione del principio della libertà religiosa quale fondamento dei diritti umani.

Il libro della storica Emma Fattorini “Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza” descrive il passaggio a questa seconda fase della diplomazia vaticana, attraverso la biografia di un eminente testimone e attore di questa svolta.

La Conferenza di Helsinki, nata come tentativo di migliorare le relazioni tra il blocco comunista, ancora in relativo disgelo prima di ricadere nell’inverno del declino finale degli anni ’80, e il blocco occidentale, si concluse con una “Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti” – 35 Stati, tra cui USA, URSS, tutti gli Stati europei, il Canada – che fu inserita in un “Atto finale”.

La Dichiarazione stabiliva un decalogo di politica internazionale, quanto mai attuale e spesso violato nel corso degli Anni ’90 e in questo millennio. Il “Sesto comandamento” suonava così: “Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo”. Fu questo il contributo dottrinale e diplomatico più importante di Casaroli e Silvestrini, sotto l’egida di Papa Paolo VI.

Libertà religiosa e metodo della laicità

Come fa notare Emma Fattorini, “I Paesi dell’Est firmarono il documento nella convinzione che si trattasse di un contentino, non immaginando, dunque, quanto il cosiddetto decalogo in esso contenuto avrebbe contribuito a erodere dall’interno i loro sistemi”.

Senza questa erosione non sarebbe stata possibile o, comunque, non così efficace l’irruenta iniziativa di Papa Woytjla, che in pochi anni mise il blocco sovietico alle strette sul piano politico-ideologico, mentre su quello economico si andava deteriorando irreversibilmente per paralisi produttiva interna.

Si discuterà a lungo se il crollo subitaneo del sistema degli Stati comunisti fu merito del lavoro diplomatico carsico di Casaroli e Silvestrini, ancorato alla Ostpolitik, o dell’irruenza polacca che con un balzo oltrepassò quell’approccio diplomatico felpato o semplicemente dell’implosione del sistema.

È più interessante per noi e più utile per il dibattito interno alla Chiesa, assediata dal processo di de-cristianizzazione, almeno qui in Europa, con “i suoi” perseguitati o costretti nelle catacombe in alcuni continenti, mettere in evidenza i fondamenti di cultura politica che stanno alla base della seconda fase storica della diplomazia vaticana.

Sono due: la libertà religiosa e la laicità.

La libertà religiosa è storicamente il fondamento del rispetto delle libertà umane e dei diritti. Perciò la base della democrazia liberale. Oggi la libertà religiosa può essere compromessa in tre modi, come fa notare Luca Diotallevi: fare un uso politico della religione, fare un uso religioso della politica, separare religione e politica a tal punto da impedire loro di “controllarsi reciprocamente”. Accade tuttora in giro per il mondo.

La laicità, che stava alla base dell’azione diplomatica e dell’ecumenismo di Silvestrini e della sua capacità di interloquire con i mondi da lui più “lontani”. La laicità non è un nuovo idolo né deve essere una “laïcité de combat”.

È, direbbe Augusto Barbera, un metodo. Non è la rinuncia a battersi per la propria verità né e per i propri valori: è solo la presa d’atto dell’esistenza della verità e dei valori degli altri, senza mai dimenticare che ciascuno di noi è “l’altro” per gli altri.

Ciascuno ha il diritto/dovere di porre integralmente il proprio “credo” sul tavolo pubblico: questa pluralità è costitutiva del tavolo pubblico. Da questa posizione incominciano il dialogo e “la negoziazione” con gli altri per costruire la sfera pubblica.

Non esistono idee e valori non negoziabili, tali da poter essere imposti solo con la forza legale di una maggioranza o con la violenza di minoranze. La costruzione della città umana è fatta da molti urbanisti con progetti diversi. Difficile? Questa, tuttavia, è la concreta condizione umana.

Come funziona, alla luce di questa storia e di questi principi, la diplomazia della Chiesa nell’attuale scenario mondiale, in cui non solo il “sesto comandamento” è brutalmente violato, ma anche i primi quattro, relativi rispettivamente all’”eguaglianza sovrana e rispetto dei diritti inerenti alla sovranità”, al “non ricorso alla minaccia o all’uso della forza”, all’ “inviolabilità delle frontiere”, all’ “integrità territoriale degli Stati”? È certamente assai più complicata che all’epoca del bipolarismo mondiale.

Dove i Governi tendono a fare uso politico della religione, offrendo libertà ai credenti solo in cambio di fedeltà a politiche di aggressione verso esterno, lì i compiti del Card. Parolin e dell’Ambasciatore straordinario Card. Zuppi appaiono più difficili e l’azione concreta non sempre collimante.

 

Editoriale da Santalessandro.org