Secondo l’ultimo Rapporto Itinerari Previdenziali, sono 334.078 gli assegni previdenziali tuttora pagati dall’INPS a persone andate in pensione nel lontano 1980 o prima: 294.093 le prestazioni riguardanti il settore privato, 39.985 quelle relative ai dipendenti pubblici
Mara Guarino
All’1 gennaio 2023 risultavano in pagamento presso l’INPS ben 334.078 prestazioni pensionistiche – comprese quelle ex INPDAP relative ai dipendenti pubblici – liquidate da 42 anni o più, vale a dire erogate a persone andate in pensione nel 1980, o anche prima. Nel dettaglio, si tratta di 294.093 prestazioni del settore privato, il 2,1% del totale delle pensioni IVS vigenti, fruite da lavoratori dipendenti o autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 241.059 donne (l’82%) e 53.034 (il 18%) uomini, e di 39.985 pensione fruite da dipendenti pubblici, di cui 28.024 (il 70,1%) donne e 11.961 (il 29,9%) uomini, rappresentative dell’1,3% del totale delle pensioni IVS della gestione INPS-settore pubblico.
Numeri elevati anche se, nel complesso, il calo rispetto allo scorso anno è significativo: al 2022 le prestazioni di durata quarantennale erano quasi 400mila, con un decremento – perlopiù fisiologico e tristemente imputabile al decesso del percettore – che, nel solo comparto privato, ha riguardato 59.686 trattamenti (-16,9%). Se si considera però che prestazioni corrette sotto il profilo attuariale dovrebbero essere correlate alla durata della vita contributiva attiva, che in media in Italia è di circa 20 anni per le pensioni di vecchiaia e di 35 anni per le anticipate, quelle evidenziate dall’Undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale, presentato lo scorso gennaio, sono cifre destinate a far riflettere su una delle principali criticità del nostro sistema, l’elevato numero di “deroghe” concesse nel tempo all’età legale di pensionamento. Attraverso l’esame in serie storica delle pensioni ancora in vigore all’1 gennaio 2023, a partire da quelle decorrenti dal 1980 (o anni precedenti), il documento – formulato tenendo conto delle età medie rilevate dagli Osservatori Statistici dell’INPS – consente infatti di ricavare importanti indicatori sull’evoluzione della normativa italiana in ambito pensionistico e sugli effetti prodotti dalle diverse leggi sulla spesa pubblica del Paese.
Con il chiaro intento di evidenziare errori da non ripetere nonostante alcune recenti e pericolose tentazioni, come ad esempio Quota 100. «Con la riforma Monti-Fornero si è indubbiamente poi passati a un’eccessiva rigidità, ma questi dati dimostrano quanto tra il 1965 e il 1990 i decisori politici abbiano perso di vista la correlazione tra contributi e prestazioni, adottando requisiti di eccessivo favore che appesantiscono tuttora il bilancio del welfare italiano a discapito di tutti quei lavoratori che accedono al pensionamento a età regolari», spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. D’altra parte, come evidenziato dalla pubblicazione, affinché il sistema resti in equilibrio, è essenziale un giusto rapporto tra periodi di vita lavorativa (e dunque anche di contribuzione) e durata del trattamento pensionistico. E così appunto non è per le pensioni a lunga decorrenza.
Basti pensare, come rileva il Rapporto, che nel settore privato l’età media alla decorrenza dei pensionati che percepiscono la rendita da 42 anni e più, ancora viventi, è di 39,9 anni (37,5 anni gli uomini e 40,5 le donne): quadro sul quale in verità pesano molto le età giovanili delle pensioni di invalidità e di quelle ai superstiti. Nella pubblica amministrazione, l’età media è di 39,7 anni (36,8 per gli uomini e 41,0 per le donne). Giusto per fare un confronto, le età medie dei lavoratori andati in pensione nel 2022 erano rispettivamente di 67,5 per la vecchiaia, 61,6 per anticipate e prepensionamenti, 55,4 per le invalidità e 77,7 per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato e di 61,2 (anticipate e prepensionamenti), 67,3 (vecchiaia), 58,6 (prepensionamenti), 54,1 (invalidità) e 74,8 (superstiti) con riferimento alle donne. «Anche volendo considerare l’elevata aspettativa di vita del nostro Paese, che non si può anzi più trascurare quando si affronta il tema dei requisiti per il pensionamento, siamo troppo oltre quel paletto dei 20/25 anni che dovrebbe rappresentare il punto di mediazione tra periodo di lavoro e tempo di quiescenza: anzi, a oggi – la precisazione del Professor Brambilla – sono in pagamento tra pubblici e privati 5.586.300 prestazioni IVS che hanno già superato una durata di 20 anni, vale a dire il 33,3%, circa un terzo di quelle complessivamente vigenti». Nel dettaglio, le donne con pensioni di durata più che ventennale sono il 35,3% del totale di genere (9.320.627), mentre gli uomini rappresentano il 30,8% del totale di genere (7.472.831).
D’altro canto, proprio le donne (notoriamente più longeve) fanno la parte del leone nel complesso dei due settori. Per quanto riguarda invece la tipologia dei trattamenti più diffusi si segnalano in particolare prestazioni di invalidità, superstiti e vecchiaia che, nel caso delle pensionate, hanno generalmente importi più bassi rispetto a quelle degli uomini ma che, a seguito di una durata appunto maggiore, comportano una spesa complessiva superiore: «Un tempo prepensionamenti, avvenuti anche con 8-10 anni di anticipo rispetto ai requisiti vigenti al momento dell’uscita dal mercato del lavoro, e persino trattamenti di invalidità venivano utilizzati, come oggi si rischiano di impiegare le varie “Quote”, APE sociale o lavori gravosi, più come ammortizzatori sociali “mascherati” e misure di sostegno al reddito che come misure di flessibilità in uscita, di cui pure l’Italia necessiterebbe (ma con moderazione)», ha spiegato il Prof. Brambilla, precisando che le ultime riforme hanno se non altro avuto il pregio di riportare il sistema verso un maggior equilibrio. Equilibrio che però le continue riduzioni delle età di pensionamento a favore ora di questa ora di quella categoria rischiano di compromettere, tanto più se si tiene conto di un’aspettativa di vita tra le più elevate al mondo.
«Spesso gli italiani si lamentano perché l’età pensionabile è (in alcuni casi anche molto nettamente) più elevata che in passato. Il che è vero – ha concluso il Professor Brambilla – ma succede perché appunto viviamo di più e dobbiamo agire di conseguenza nel rispetto dei più giovani, con i cui contributi vengono pagati pensioni e anticipazioni, e di quel patto intergenerazionale su cui si fonda la tenuta della previdenza italiana. Ecco perché, senza colpevolizzare quanti hanno potuto beneficiarne, questa vasta schiera di prestazioni ancora in pagamento, seppur concesse ormai molti anni fa, deve semmai diventare un promemoria per la politica e monito per i fautori delle troppe anticipazioni».
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali