1871 Brescia – 1957 Trento
Di Valeria Palumbo
Lei lo seppe soltanto il 17 luglio, mentre era a Padova. All’inizio le notizie erano state confuse: prigioniero? Caduto sul fronte? Poi arrivò la verità: il 12 luglio 1916 Cesare Battisti, giornalista, geografo, socialista, irredentista, massone, deputato al Parlamento di Vienna, arruolato nell’esercito italiano nella prima guerra mondiale, era stato impiccato a Trento per alto tradimento. Per Ernesta Bittanti Battisti, sua moglie e, fino a quel momento, la sua più fedele compagna di battaglie cominciava, nella tragedia, una nuova vita. Forse. O forse fu soltanto un nuovo capitolo di un’esistenza tutta dedicata alla politica.
L’Italia fece subito un santino di suo marito. Tutti dimenticarono che, per le sue idee progressiste, era un perseguitato anche da noi. Il fascismo ne fece un eroe. Lo era. Ma non per loro. Cento anni dopo la sua morte una mostra nel Castello del Buonconsiglio di Trento dove fu imprigionato e giustiziato, si è incaricata di ricostruire una vicenda complessa: quella di un deputato di lingua italiana al Parlamento di Vienna che decise di combattere dalla parte dell’Italia e fu giustiziato per diserzione. I soldati venivano fucilati per molto meno, sui fronti del 1916.
Ernesta Bittanti mantenne fermo il timone: non deviò, non si lasciò tentare dalle seduzioni e dai richiami dei fascisti, che pure furono tanti. Restò all’opposizione, sempre, perfino con l’Italia democratica e repubblicana del 1946: contestò, fra l’altro, al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, l’idea di una regione autonoma del Trentino Alto-Adige. A parte le lettere a De Gasperi, scrisse moltissimo sull’autonomia e la questione altoatesina. Secondo lei l’accordo De Gasperi-Gruber, che stabiliva i confini tra Italia e Austria dopo la seconda guerra mondiale e ne regolava i rapporti, avrebbe dovuto essere applicato soltanto all’Alto Adige.
Tanto impegno veniva da lontano. Ernesta era nata nel 1871 (sarebbe morta nel 1957). “Siora Battisti mi non capiso perché Ela la se mete sempre con quei che le ciapa” (Signora Battisti, io non capisco perché Lei si mette sempre con quelli che le prendono), le ripeteva la domestica Faustina. Forse perché non aveva paura.
Nel gennaio 1923 rispose così agli auguri di Natale inviati da Mussolini, che aveva collaborato brevemente a «Il Popolo», il giornale socialista ideato da Ernesta e fondato da Cesare nel 1900: “[…] Alla Storia non si dettano leggi: ma Vi ha scelto espressione di un ben terribile destino, di reggere […] l’Italia incatenandola ed umiliando il suo spirito vitale!”
Il 22 giugno 1924, dopo l’assassinio di Matteotti, in occasione di un’adunata fascista a Trento, Ernesta, accompagnata da Pietro Calamandrei, si recò polemicamente sulla fossa del Buonconsiglio, dov’era stato ucciso il marito; vi si trattenne a lungo e coprì con un velo nero, in segno di lutto il cippo, che segna il luogo dell’esecuzione di Cesare. Ma Ernesta non esaurì la sua battaglia alla difesa della memoria e delle idee di Cesare e nella pubblicazione dei suoi scritti. Anzi. Si batté sempre per l’emancipazione e il voto delle donne e, per fortuna, nel 1946, poté finalmente vedere realizzate le sue speranze.
Aveva fatto tutto controcorrente, nella sua vita. Era perfino stata una delle prime donne a guidare un’auto e di automobili aveva scritto su «Il Popolo», salutando, per esempio, sia l’arrivo della prima autoambulanza in campagna, sia l’introduzione del tassametro sui taxi. Soprattutto Ernesta era stata tra le prime italiane laureate.
Aveva trascorso l’infanzia tra Brescia, dov’era nata, Cremona e Cagliari. Il padre, Luigi, professore di matematica e preside, le trasmette la passione per lo studio. A Cagliari fu la prima bambina iscritta al ginnasio-liceo statale nel 1882. Nel 1890 si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Firenze, dove si era trasferita con due sorelle e un fratello. Animata dai quattro ragazzi, Casa Bittanti diviene ben presto un cenacolo di giovani intellettuali. Vi si incontravano Gaetano Salvemini, Ugo Guido, Guglielmo Mondolfo, Alfredo Galletti, Assunto Mori e Cesare Battisti per discutere di politica, di letteratura, di temi sociali. Quando riassunse la docenza all’Università di Firenze nel 1949, Salvemini affermò:
[…] l’influenza più felice la ebbe su di me una compagna, che veniva da Cremona […]. La chiamavo “Ernestina” e continuo a chiamarla Ernestina tutt’ora. […] L’Ernestina era assai più colta di me. Fu lei che mi rivelò i romanzieri russi. Fu lei che mi fece conoscere la Rivista di Filosofia scientifica.
Non fu il solo a essere affascinato da quella giovane studiosa, non bella, ma animata da un vero fuoco: Cesare Battisti era più giovane di lei di quattro anni. Era bello e, per parte di madre, Maria Teresa Fogolari, di famiglia nobile e irredentista: sui zio Luigi era stato condannato a morte per cospirazione e poi graziato.
Cesare è conosciuto da tutti gli studenti italiani. A Ernesta non si è riusciti nemmeno a intitolare una strada, come da anni chiedono le associazioni femminili. Ernesta si laureò nel 1896 con una tesi in storia della letteratura. Nel novembre dello stesso anno aveva cominciato a insegnare al Liceo Galileo di Firenze. Ma, nel 1898, fu radiata dalle scuole del Regno per la sua attività politica. Nel 1899 sposò civilmente Cesare: insieme si trasferirono da Firenze a Trento, ossia nel territorio dell’Impero austriaco. Qui fondarono la rivista «Il Tridentum», per la promozione degli studi scientifici. Al secondo congresso del Partito socialista trentino Ernesta propose di creare anche un giornale politico: il 7 aprile 1900 nacque «Il Popolo», stampato nella piccola tipografia che Cesare Battisti aveva rilevato tra mille difficoltà. E tra mille difficoltà e sequestri si svolse la breve vita del quotidiano che chiuse i battenti il 25 agosto 1914. A dire il vero fu Cesare a volerlo: scoppiata la guerra tornò in Italia e chiese a Ernesta di seguirlo. Dopodiché si arruolò volontario.
Lei intanto, dal marzo 1906, aveva avviato una campagna a favore del divorzio, in aperta polemica con la Chiesa. Per tutta risposta la processione della Madonna pellegrina si fermava tutti gli anni davanti al suo portone, a Trento, per invocare il perdono per quella donna perduta e “senzadio”. Pedagoga e giornalista, nonostante i tre figli (Gigino nel 1901, Camillo nel 1907 e Livia nel 1910), continuò sempre a scrivere: il 31 dicembre 1908 partì per portare aiuti ai terremotati di Messina. E per raccontare ai lettori la tragedia.
Riprese a insegnare per mantenere la famiglia, quando Cesare partì per il fronte. Ma era stata lei a occuparsi di dirigere i giornali in occasione delle sue assenze: nel 1911 Cesare era stato eletto al Parlamento di Vienna e, nel 1914, alla Dieta di Innsbruck.
Durante il fascismo si dedicò alla pubblicazione degli scritti del marito. E prese coraggiosamente posizione contro le leggi razziali: la “pecora matta”, l’apostrofava Telesio Interlandi, direttore della «Difesa della razza» e feroce giornalista antisemita. Una foto la ritrae mentre gioca con la nipote in un giardinetto con una stella di David cucita sul cappotto come gesto di sfida. Nel diario Israel–Antiistrael Ernesta tenne nota della tragedia antisemita, delle partenze degli amici. Dopo la guerra si sarebbe però ricordata anche degli ebrei che avevano dato il loro appoggio al fascismo: non li giustificò. Alla morte dell’ingegner Augusto Morpurgo, un irredentista trentino, fece pubblicare sul «Corriere della Sera» il 18 febbraio 1939 un necrologio: per gli ebrei era vietato. Un’altra sfida, di particolare valore proprio perché Ernesta portava il cognome Battisti.
Dopo l’8 settembre 1943 fu costretta a fuggire in Svizzera con la famiglia: i figli erano ormai grandi. Da Lugano collaborò con i partigiani della Val d’Ossola, con i quali combatteva anche Gigino, il primogenito. Il 24 settembre 1943 Ernesta scrisse al presidente della Confederazione elvetica ringraziandolo per l’accoglienza, ma esprimendo tutto il suo disagio per il rifiuto d’asilo a gruppi di ebrei: sperava che fossero notizie infondate, aggiunse.
La vita le avrebbe riservato ancora un immenso dolore: il 13 dicembre 1946 morì in un incidente ferroviario Gigino, Luigi, che in quello stesso anno era stato eletto primo sindaco socialista di Trento e segretario dell’Assemblea Costituente, nella quale era entrato con le elezioni del 2 giugno.
Il dolore non le impedì di continuare a scrivere e a battersi. Scrisse di tutto: cultura, letteratura, storia, pedagogia, perfino un saggio sulla Primavera di Sandro Botticelli. Morì il 5 ottobre 1957. Accanto a lei la figlia Livia e l’amica Bice Rizzi.