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Energia: si predica bene ma si razzola male

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Con una massiccia offensiva politica e mediatica, si è colta l’occasione per attribuire alla transizione ecologica la colpa dell’aumento del costo delle bollette elettriche sul quale, al contrario, incide soprattutto la speculazione sul gas. Con l’obiettivo di sbloccare le trivelle e tornare al nucleare

di Loan

Nel novembre del 2021 il ministro della Transizione ecologica Cingolani, alla conferenza sul clima di Glasgow, ha firmato l’adesione dell’Italia (seppure soltanto con il ruolo di “Paese amico”), differenziandosi così  da paesi chiave come Stati Uniti, Germania, Cina e India, al Boga (Beyond Oil and Gas Alliance), cioè ad un programma che prevede lo stop alle licenze e alle concessioni per nuove esplorazioni di giacimenti di petrolio e gas. In quell’occasione lo stesso ministro Cingolani affermò che “l’Italia su questo programma è perfino più avanti e abbiamo le idee chiare”, rivendicando “il grande piano per le rinnovabili con 70miliardi di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita” nel nostro Paese.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), poi, punta sulle fonti rinnovabili in tempi immediati, e stanzia anche 2,2 miliardi di euro per finanziare le comunità energetiche rinnovabili (Cer) e le strutture collettive di autoproduzione.

Eppure, chi si aspettava coerenza lungo questa linea deve ricredersi. Con una massiccia offensiva politica e mediatica, si è colta l’occasione per attribuire alla transizione ecologica la colpa dell’aumento del costo delle bollette elettriche sul quale, al contrario, incide soprattutto la speculazione sul gas, grazie alla quale le aziende energetiche che hanno guadagnato miliardi di euro. Nel solo anno 2021 l’aumento del prezzo del gas ha portato extra-profitti per più di 4 miliardi, mentre per il 2022 si prevede che saranno superati i 10 miliardi di euro. Eppure il governo Draghi, nel decreto Sostegni, invece di tassare gli extra-profitti, ha tassato le energie rinnovabili.

In questi giorni il ministro Cingolani ha pubblicato il Pitesai, il Piano per le aree idonee da trivellare alla ricerca del petrolio e del gas. Il piano del ministero per abbassare il prezzo dell’energia è di portare la produzione nazionale del gas dagli attuali 3,5 miliardi di metri cubi l’anno a 7 miliardi di mc, coprendo in tal modo il 10% del fabbisogno nazionale, che è di 70 miliardi di mc. Si tratta di una quota troppo esigua per incidere sul costo delle bollette ma, oltretutto, in un mercato energetico  totalmente liberalizzato, in regime di concorrenza, è il mercato internazionale a determinare il prezzo. Non sarà quindi un aumento, comunque modesto, della produzione nazionale a risolvere il problema del caro bollette, perché è il complessivo rapporto tra domanda e offerta in campo europeo a fissare il livello dei prezzi. Essendo il gas immesso nella stessa rete e scambiato sul mercato come prodotto indistinto, il prezzo è lo stesso sia che sia stato importato sia che sia stato  prodotto in Italia.

Il governo, invece di sbloccare, come richiede lo stesso Pnrr, i 110 gigawatt di autorizzazioni ancora ferme per le energie rinnovabili, il governo non tocca i 18 miliardi di euro annui di sussidi pubblici alle fonti fossili e spalanca le porte a nuove trivellazioni per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi, che avranno un impatto molto negativo sul clima come sull’ambiente, sul paesaggio e sul mare delle regioni italiane senza portare reali benefici sul versante del prezzo dell’energia.

Dunque si predica bene, ma si razzola male, ed è facile comprenderne il motivo: le compagnie petrolifere e le società energetiche che tardano a riconvertirsi hanno in gioco grandi interessi messi in discussione dalle energie rinnovabili che sono competitive rispetto a carbone, gas e petrolio. Significativo l’esempio della recente asta sull’energia in Portogallo, che ha visto calare il prezzo del gas a 80 euro al megawattora mentre il fotovoltaico è stato assegnato a 14,76 euro per Mwh.

Si sente con sempre maggiore insistenza parlare degli errori commessi dall’Italia in campo energetico, con riferimento alla moratoria sulle trivelle ma, soprattutto alla scelta di rinunciare alle centrali nucleari operata dal popolo italiano con il referendum del 1987 e poi ribadita nel 2011.

Il ritorno al nucleare viene invocato facendo riferimento a centrali di nuova generazione per la produzione di energia nucleare da fissione. Ora, a proposito del caro bollette, sarà bene tenere presente che i costi del nucleare da fissione sono ancora straordinariamente elevati e che, laddove, come in Francia, proliferano le centrali nucleari, questa produzione si regge essenzialmente sui contributi pubblici pubblici perché è un’industria fortemente indebitata (da qui le pressioni del presidente francese Macron per inserire il nucleare nella tassonomia europea delle energie pulite). Si sceglie l’ambiguità, di non parlare chiaro alla gente: l’invocata nuova generazione del nucleare non risolve il gravissimo problema delle scorie, si tratta solo di centrali che producono meno scorie perché sono più piccole ma, proprio per questo, vanno impiantate in numero maggiore per coprire il fabbisogno energetico.  L’energia nucleare sarà veramente sicura solo quando la scienza potrà garantire la produzione di nucleare attraverso la fusione. Come ha chiarito la stessa Commissione europea, “la realizzazione del primo plasma avverrà probabilmente nel dicembre 2025, con la piena operatività stimata per il 2035. L’energia da fusione come fonte energetica commercialmente valida non dovrebbe produrre elettricità prima del 2050”.