di Pippo Ranci
Relazione agli INCONTRI RIFORMISTI di Eupilio 2023
Premessa. L’improvviso scoppio delle ostilità nel 2022 ha imposto il tema della sicurezza a un’UE che aveva assunto come primario l’obiettivo della sostenibilità. Oggi è indispensabile formulare una politica comprensiva dei due obiettivi, più il terzo obiettivo permanente, l’esigenza dell’economicità per i consumi energetici delle famiglie (specie meno abbienti) e per la competitività delle imprese.
1-La transizione ha per obiettivo la sostenibilità, soprattutto il clima
L’energia conta per i tre quarti delle emissioni di gas serra: per difendere il clima è necessaria una trasformazione radicale del settore energia.
La considerazione del pericolo clima ha portato, fin dal 1992, ad accordi mondiali aggiornati nelle COP (importante Parigi 2015). Si è fissato un obiettivo: temperatura +1,5°C o al massimo 2°C rispetto al livello preindustriale. Per raggiungerlo si è fissato (risalendo la catena causale) lo zero netto emissioni al 2050, con un intermedio al 2030 (-55% sul 1990) e traguardi strumentali come quota rinnovabili e misura del miglioramento di efficienza.
Rispetto al percorso tracciato, non siamo in linea. Non è in linea il mondo, ove le emissioni stanno continuando ad aumentare. Non è in linea l’Europa dove le emissioni scendono troppo lentamente e arriveranno allo zero diversi decenni dopo il 2050. L’Unione europea ha fissato obiettivi specifici, ad esempio un’installazione di nuova capacità di generazione elettrica da rinnovabili che per l’Italia è di 70 GW dal 2022 al 2030, 9 GW all’anno: siamo partiti installandone meno di 2 all’anno, nel 2023 potremmo essere saliti al 4,5.
Si sta allargando la distanza tra intenzioni e realizzazioni, e le reazioni d’opinione tendono ad accrescere questa distanza.
Chi guarda al clima avverte segnali di pericolo nelle temperature record, negli eventi meteo estremi (siccità alluvioni) che diventano più intensi e frequenti e ne ricava un obbligo morale a fronteggiare il pericolo alzando le asticelle degli impegni.
Chi invece guarda al ritardo rispetto ai percorsi tracciati e alle difficoltà che ostacolano rapidi cambiamenti nelle abitudini nel consumo e nelle tecniche nella produzione, nel costo degli investimenti, ritiene inevitabile adottare politiche più graduali e meno ambiziose.
Così aumenta la distanza tra segmenti d’opinione che corrispondono in buona parte a raggruppamenti politici, s’indebolisce il dialogo e in luogo di un confronto per una ricerca del possibile si determina uno scontro.
Non se ne esce con le mediazioni, ma solo superando il ragionare per segmenti, affinando e consolidando la conoscenza sia dei fenomeni fisici sia delle possibilità tecniche e delle dinamiche economiche e politiche. Le politiche sarebbero più razionali se potessero poggiare su conoscenze maggiori dei fenomeni misurabili e su stime accettabilmente attendibili di quelli non misurabili. Cosa non impossibile, pur di investire un poco di più negli studi e nella loro comunicazione.
Si noti che la convergenza tra ideali ambientalisti e prudenza realizzativa è resa più difficile da un’asimmetria riguardante la possibilità di misurare benefici e costi. I costi delle politiche sono facilmente misurabili: i prezzi dei combustibili spinti dai vari tipi di carbon tax, l’onere di dover cambiare impianti di riscaldamento e autovetture, i costosi investimenti in nuovi modi di produrre energia, le nuove reti per l’elettricità e per la ricarica dei veicoli, gli incentivi alle rinnovabili finanziati con le imposte.
Invece i benefici delle politiche sono dati dalla riduzione dei danni che il cambiamento climatico infligge. Ma di questi abbiamo una conoscenza probabilistica e globale, come globale è l’effetto serra che li produce. Abbiamo un buon grado di certezza circa l’aumento delle punte di calore estivo, il crescente livello dei mari, la maggiore intensità e frequenza degli uragani, ma non possiamo prevedere la temperatura del luglio 2024 a Milano né dire se il Seveso esonderà nel successivo ottobre. E allora la diffusa abitudine ad agire in base a ciò che si vede è soggetta a sistematica deviazione a favore di quello che sembra puro buonsenso e invece è miopia.
Mi propongo, in questo intervento, di fornire qualche elemento di conoscenza utile al necessario dialogo tra posizioni ispirate dalla responsabilità per la casa comune e posizioni ispirate dalla doverosa attenzione alla realizzabilità delle politiche.
Un inciso sui dubbi riguardo al clima
Per schivare le difficoltà di un’azione concreta orientata alla sostenibilità vien voglia di domandarsi: ma questa storia del clima sarà poi vera? Così molti ripescano i dubbi sul clima.
Sul piano della scienza del clima, mi pare che i dubbi residui vertano solo su aspetti di dettaglio o di approfondimento, non sui dati fondamentali, che impongono di adottare politiche di prevenzione – mitigazione per quanto possibile e di adattamento per quanto inevitabile ma prevedibile (quindi politiche da preparare).
Qui non ci sono dubbi nella grandissima parte degli scienziati, e quindi nelle istituzioni. Il negazionismo è di pochi.
Non è solo il numero che fonda il consenso, è l’impiego sistematico del metodo scientifico, la trasparenza, la verifica delle pubblicazioni peer-reviewed, un enorme lavoro diffuso nel mondo soggetto a continuo affinamento anche attraverso la normale discussione e critica nella comunità scientifica.
I negazionisti sono pochi, si citano tra loro, sono poco propensi a sottoporsi al generale processo critico. Diffondono l’opinione che l’ampio consenso mainstream sia ispirato da presunte fonti non scientifiche, dalla politica e da interessi di parte. Ma l’unico caso accertato di azione sistematica per dirottare la ricerca e deformare i suoi messaggi è quello promosso da un’industria timorosa di essere danneggiata dalle politiche indotte dalle scoperte scientifiche: il caso celebre è l’industria del tabacco, imitata poi dalle grandi imprese petrolifere, o almeno alcune tra esse.
Gli scienziati impegnati nel lavoro di approfondimento delle conoscenze sul clima spesso evitano di perdere il tempo in discussioni con questi oppositori prevenuti. Questi ultimi possono così assumere la posizione della minoranza perseguitata, che può trovare consensi. Tanto più che essi offrono speranza ai molti che temono oneri eccessivi dalle politiche per il clima. O semplicemente suscitano simpatia presso i molti poco informati e scontenti per altre politiche.
In questo modo le tesi scientifiche di una minoranza poco attendibile nutrono una reazione ampia e forse crescente, come si vede in molti paesi lontani dal noi ma anche in ambiti a noi vicini. Non è troppo tardi per impedire il peggio, ma nemmeno troppo presto per dedicarci con paziente tenacia al compito di spiegare come stanno le cose.
2-Sicurezza
Dal 24 febbraio 2022 l’obiettivo della sicurezza energetica è balzato di nuovo in primo piano, a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’uso offensivo (weaponisation) delle forniture russe di gas.
Di colpo è svanita la fiducia nel mutuo interesse di Russia ed Europa a commerciare, che aveva portato l’Europa e l’Italia a essere troppo dipendenti. L’Italia era arrivata a importare dalla Russia il 40% del gas che consumava. Per la Russia l’interesse economico è stato spiazzato da una scelta dovuta a motivi certamente non economici.
Col senno del poi, diciamo che quella fiducia era stata spinta oltre ogni prudenza. Ora non c’è motivo per rigettare a priori la fiducia nel commercio globale, si deve solo fare i conti con un contesto più variegato e rischioso di prima. Sicuramente è stato giusto, a suo tempo, abbandonare il mito nefasto dell’autarchia, è ora necessario definire una nozione praticabile di indipendenza o meglio, un livello di dipendenza accettabile. Sia per le fonti di energia, sia per altri beni strategici come i pannelli solari, le pale eoliche, le batterie, gli elettrolizzatori e le materie prime, grezze o lavorate, indispensabili a produrre tutto ciò: in questi campi il fornitore che impensierisce è la Cina.
Per fissare la nozione, direi che l’accettabilità dipende non solo dalle quantità importate in quota del consumo totale, ma anche da una valutazione di affidabilità dei venditori da cui si acquista. Direi anche che la riduzione del rischio ha due capitoli diversi. Uno è l’indipendenza dell’Europa, da perseguire con programmi comuni, come quelli già in essere, ad esempio, per le batterie; in questo sono d’aiuto le disposizioni dei trattati europei che assicurano ampi poteri alle istituzioni comunitarie in tema di commercio internazionale.
L’altro è la libera circolazione delle merci e dei servizi all’interno dell’Unione, fissata da trattati e norme ma ancora imperfetta. Guardiamo al caso delle connessioni gas. La rete europea è ancora mal connessa con l’Ungheria da un lato e con la penisola iberica dall’altro. Quando è intervenuto il taglio dell’import dalla Russia, l’Ungheria è rimasta totalmente dipendente dal gas russo e quindi legata a Putin anche da un vincolo fisico. Spagna e Portogallo, dove i governi avevano saggiamente autorizzato da anni ben 8 terminali di rigassificazione, quelli che permettono di importare gas liquefatto via nave da qualsiasi continente, hanno goduto il vantaggio di gas abbondante, che non riuscivano a esportare nel resto d’Europa: lo hanno utilizzato per tener basso anche il prezzo dell’elettricità.
Per fare dell’Europa un vero mercato unico occorrono investimenti. Occorre anche un completamento delle regole perché ancora oggi, se si verificasse una generale scarsità elettrica, sarebbe facile per uno stato membro privilegiare di fatto gli acquirenti interni impedendo che l’elettricità affluisca al resto d’Europa come accadrebbe in un mercato pienamente libero.
Pur in queste condizioni imperfette, la dipendenza europea dal gas russo è stata molto ridotta nel breve giro di un anno e mezzo. Non azzerata però: di fatto, paradossalmente, stiamo ancora pagando il paese verso il quale abbiamo pur adottato pesanti sanzioni.
In un regime di libera circolazione dell’energia, la varietà delle scelte nazionali passate in tema di mix energetico diventa distribuzione del rischio e quindi fonte di maggior sicurezza, anche di fronte al mutare degli equilibri politici e delle prospettive tecnologiche.
3-Recuperare i ritardi e programmare
Velocità nello sviluppo delle rinnovabili
Nelle verifiche in corso d’opera emergono pesanti ritardi. I compiti sono molto impegnativi: nuova generazione da rinnovabili, modi per ovviare all’intermittenza con l’uso degli invasi idroelettrici e delle batterie, sviluppo delle reti per consentire i nuovi flussi dalla generazione distribuita sul territorio e intermittente.
Si stanno facendo tentativi, ad esempio, per accelerare le autorizzazioni all’installazione di generatori solari ed eolici. Un ostacolo è venuto dalle Soprintendenze all’archeologia, belle arti e paesaggio: il loro mandato istituzionale, fissato nelle leggi, è la difesa dei beni comuni di loro competenza e non l’equilibrio tra quella difesa e altri interessi pubblici, tra cui la decarbonizzazione. Modifiche normative sono in corso.
Un po’ di accelerazione nelle costruzioni può venire dall’apprendimento e da una capacità di progettazione che passi dalla fase iniziale alla velocità di crociera. Anche dagli effetti imitativi che possono far superare l’inerzia dei piccoli operatori e proprietari privati: così come la moda dei SUV ha fatto crescere nel mondo intero le emissioni, una moda dell’energia pulita locale potrebbe giovare, ovviando alla fine degli incentivi all’efficientamento degli edifici (110%) e all’acquisto di auto elettriche. Bisognerebbe saperne di più sulle differenze territoriali, sulle motivazioni e le opinioni degli interessati. Servirebbe un’Amministrazione pubblica più dotata di capacità conoscitive.
Ma anche un’amministrazione pubblica più in grado di tradurre velocemente le conoscenze acquisite in miglioramenti delle tecniche d’intervento.
La velocità nell’ammodernamento delle reti e degli accumuli dipende dalle imprese di rete. Qui trasparenza e controllo pubblico sono cruciali, probabilmente anche qui siamo in ritardo.
Interdipendenze
Prendiamo il caso dei veicoli elettrici. Se si diffondono mentre la generazione elettrica viene dalle centrali termiche, il miglioramento è modesto, anzi le emissioni potrebbero anche aumentare. Quindi è bene favorire la diffusione dei veicoli elettrici solo perché avviene gradualmente. Tra diffusione dei veicoli e trasformazione del parco centrali occorre coordinamento.
Queste interdipendenze ci sono dappertutto. Ad esempio, tra generazione e reti. Accade che in un giorno di sole forte, un parco di pannelli fotovoltaici non riesca a vendere la sua produzione nelle ore del mezzogiorno perché la rete è dimensionata a un flusso normale e non regge la punta; o per lo stesso motivo, accade che un parco eolico debba sganciare le pale dal generatore quando la produzione tocca il massimo della capacità della connessione alla rete. Per fare un altro esempio, la diffusione dei veicoli elettrici richiede certezza che siano numerose e ben distribuite sul territorio le colonnine per la ricarica, ma l’investitore chiede certezza che le auto ci siano a farle lavorare, altrimenti va in perdita.
Programmazione
Un piano ben costruito, con tempistica compatibile serve da riferimento agli operatori. Ma deve essere credibile. Se esprime l’aspirazione della politica a gettare il cuore oltre l’ostacolo, gli operatori non lo prenderanno a riferimento.
Se il piano non è credibile, o se per non sbagliare viene scritto in modo vago, le strategie degli operatori oscilleranno tra la prudenza economica e l’ambizione di arrivare prima dei concorrenti, con un esito casuale riguardo alle tempistiche relative. Gli operatori maggiori saranno indotti a mettersi d’accordo per raggiungere un buon grado di compatibilità delle rispettive decisioni. Credo che questa soluzione oligopolistica sia la più probabile in assenza di una buona programmazione. Sarà anche il male minore, ma non vorrei essere un piccolo concorrente o un nuovo entrante.
Beninteso, questo non vuol dire che non debba esserci una consultazione continua degli operatori, a partire dai maggiori: è condizione per qualsiasi buona programmazione.
Mercati
Una programmazione non sostitutiva ma orientativa dei mercati. A cominciare da quelli del gas all’ingrosso, già di fatto un mercato unico europeo, che ha fatto registrare l’incredibile impennata del prezzo nel 2022. Il tetto al prezzo introdotto successivamente è un cerotto debole anche se necessario. Poi i mercati dell’elettricità, riguardo ai quali la Commissione ha ora avanzato una proposta che va nella direzione giusta.
Pubblica amministrazione
La transizione non avviene solo per opera del mercato. La politica utilizza i mercati indirizzandoli e spostando le convenienze economiche.
In Italia le istituzioni della programmazione sono ancora insufficienti rispetto ai compiti che sono ben più impegnativi che per il passato.
Autorevoli osservatori hanno esposto analoghe osservazioni riguardo alla burocrazia europea, che ha il compito immane di coordinare le programmazioni di 27 stati membri. L’attuale procedura per il coordinamento dei PNIEC è lentissima e debole. Sarà pure necessario un grado di mediazione politica, ma questa dovrebbe potersi esercitare su di una base tecnica forte, ben articolata e motivata, protetta dalle pressioni. Ci sono autorevoli proposte di innovazione istituzionale, come la creazione di un’Autorità europea dell’energia. Non discuto qui del mezzo, ma l’esigenza c’è e qualcosa si dovrà fare.
La Commissione europea non ha dormito. Sul versante della produzione legislativa non c’è troppo poco, anzi forse troppo, ma il punto debole è sul piano gestionale.
4-Il nucleare e la cattura del carbonio
Ribaltare un sistema energetico che oggi è basato per oltre il 70% sulle fonti fossili e decarbonizzarlo interamente in 25 anni è un’impresa immane, che non ha precedenti, ed è ancor più difficile in quanto risponde non a un immediato interesse per i soggetti capaci di intraprenderla ma un interesse collettivo a evitare una minaccia serissima, che va tradotto in azione collettiva efficace ma sempre rispettosa delle libertà e delle autonomie.
Nessuno strumento è di troppo. Ogni possibile strumento merita valutazione attenta, senza preclusioni ideologiche. Ne cito due, entrambi discussi.
Uno è il nucleare, che in Europa conta per il 25% della generazione di elettricità. La sua fase discendente potrebbe dar luogo a una ripresa, proprio per le due esigenze della decarbonizzazione e della sicurezza, ma anche per una riconsiderazione dei rischi a confronto con i danni più certi o probabili derivanti dall’uso di combustibili fossili. Alla rivalutazione del nucleare concorrono le prospettive aperte dall’innovazione dei piccoli reattori modulari, mediamente grandi un quinto di quelli tradizionali, che promettono di essere meno pericolosi e lasciare meno scorie, meno costosi e di più veloce costruzione dato che saranno prodotti in serie. Ci sono al mondo pochi impianti dimostrativi e nessuno in esercizio, che si sappia, salvo notizie che ce ne siano in Russia e in Cina. Le varietà tecniche sono ancora numerose e si restringeranno a pochissime quando qualcuna delle imprese avviate a produrre questo tipo di impianti farà le sue scelte.
Anche i grandi impianti di tipo tradizionale vengono oggi ancora prescelti in paesi che hanno già un avviamento, risorse dedicate, servizi in funzione e un quadro di norme e controlli collaudato; ancora richiedono tempi di progettazione e costruzione dell’ordine di una decina d’anni, un’esperienza di fasi progettuali e costruttive caratterizzate da notevoli allungamenti dei tempi e lievitazione dei costi.
La materia è ancora lontana dal poter essere oggetto di decisioni comuni a livello europeo.
Un paese nelle condizioni dell’Italia non mi pare possa contare sul nucleare per gli obiettivi al 2030, ma potrebbe esplorare adesso le possibilità per il futuro più vicino possibile. Potrebbe ordinare a un piccolo gruppo di esperti una rassegna delle possibilità concrete oggi disponibili riguardo sia alla produzione che allo smaltimento delle scorie, e tracciare i requisiti per una futura regolazione della materia. Questa veloce indagine, condotta da esperti indipendenti in grado di trarre informazioni dalle imprese che hanno conoscenze dirette mantenendo una totale indipendenza rispetto ad esse, dovrebbe precedere qualsiasi decisione politica, proprio perché la procedura per eventuali decisioni politiche possa essere istruita correttamente.
L’altro è la cattura della CO2, che verrebbe estratta sia dalle emissioni industriali sia direttamente dall’atmosfera, e poi immessa in cavità del terreno impermeabili. Riguarderebbe quantità limitate ma può contribuire alla decarbonizzazione nel periodo della transizione che sarà comunque lungo. Può anche dare ai settori più difficili da decarbonizzare, come l’acciaio e il cemento, il tempo necessario per trovare la via di tecniche radicalmente nuove.
Altre tecniche vanno promosse, come lo sviluppo dei biocombustibili e l’incremento della geotermia, per le quali pure andrebbe tenuta d’occhio ogni prospettiva d’innovazione.
5-Oltre il confine nazionale
Il livello giusto per la maggior parte delle decisioni è quello europeo: l’Italia, come ciascun paese membro, ha interesse a spostare competenze verso il livello che può operare efficacemente.
L’esigenza di una politica energetica comune è oggi così acuta che, nel caso un progresso sufficiente nell’integrazione non dovesse trovare il consenso dei 27 stati membri, potrebbe risultare necessario, anziché rinunciare, muoversi verso un accordo di cooperazione rafforzata tra i paesi consenzienti.
Poi ci sono i problemi globali come il clima. Sul clima gli accordi raggiunti sono sorprendenti perché, da Rio 1992 a Kyoto 1997 a Parigi 2015, i più importanti paesi del mondo sono stati spesso assenti o riluttanti eppure, grazie all’azione di entità come l’UE e di numerosi paesi di media grandezza, il cammino non si è interrotto ed è giunto ad avviare un meccanismo comune di coordinamento e monitoraggio e a conseguire risultato misurabili significativi. I paesi industrializzati sono passati da emissioni crescenti a decrescenti, sia pure con velocità ancora insufficiente, mentre i paesi che maggiormente impegnati nella crescita economica per portare la loro popolazione a livelli di reddito accettabili hanno comunque rallentato la crescita delle loro emissioni e hanno adottato piani e concrete misure per raggiungere una sostenibilità in tempi fissati.
Un’ottima notizia recente è l’accordo Usa-Cina per aderire all’iniziativa per una riduzione delle perdite di metano dagli impianti di estrazione e trasporto. Una molecola di metano contribuisce all’effetto serra come 80 molecole di CO2, anche se rimane in atmosfera per meno decenni della CO2. Questa è una delle poche operazioni che possono avere forti effetti a breve, già entro il 2030, per ridurre l’effetto serra. È stata avviata come privato-pubblica nel 2004, l’impegno a livello di governi (Global Methane Pledge) è stato preso nel 2021 dalla UE e altri paesi, mancavano i due grandi che ora aderiscono.
La sicurezza nucleare nel mondo è nelle mani della AIEA, sede a Vienna, riconosciuta indipendente, anche se sussiste un dubbio (da cui l’Iran ha tratto motivo per ostacolare le ispezioni) che abbia troppo assecondato la bugia americana sulle armi di distruzione di massa dell’Irak nel 2003. È importante che il sostegno europeo alla IAEA sia fermo e forte, affinché la sua opera possa essere di garanzia in un prossimo futuro che vedrà, qualsiasi cosa facciamo noi, un’espansione degli investimenti nel nucleare civile in molti paesi nuovi e inesperti.
Il cambiamento climatico è «un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana» come non si stanca di ripetere papa Francesco trovando consenso ben al di là dei confini della chiesa cattolica. È un fatto che il cambiamento climatico minaccia in misura maggiore la vita delle popolazioni più povere e richiede per essere ostacolato un cambiamento del modello energetico da parte di una maggioranza delle popolazioni: se il programma non offre una prospettiva di miglioramento a questa maggioranza, il consenso è impossibile e il programma fallisce.
La prospettiva di una cooperazione in materia energetica tra Europa e mondo in via di sviluppo comprende ora anche la dichiarata intenzione di un’iniziativa italiana per un “nuovo partenariato tra Italia e Stati del Continente africano” denominata “piano Mattei”. Il decreto legge n.161 del 15 novembre istituisce una cabina di regia presso la presidenza del consiglio, ciò che non consente di capire la sostanza delle intenzioni.
La materia, e anche il nome adottato, meritano contenuti. L’Africa non è solo un fornitore di combustibili fossili necessari all’Italia, ma presenta sia un grande potenziale per fare del Mediterraneo uno snodo per l’energia solare come lo è il Mare del Nord per quella eolica, sia un’area di grande sofferenza umana dove l’energia elettrica è ancora negata a 600 milioni di persone, dove un miliardo di persone non hanno un combustibile pulito per cucinare e scaldarsi, dove la prospettiva oggi plausibile è che rimanga l’unica parte del mondo con queste carenze ancora oltre la metà del secolo. C’è qui una possibilità che una cooperazione equilibrata che coinvolga grandi e meno grandi imprese possa avere un impatto molto positivo anche senza richiedere capitali enormi.