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Effetto Chamberlain: se il Papa chiede la resa a Kiev

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di Giovanni Cominelli

L’intervista dell’11 marzo del Cardinale Parolin, Segretario di Stato e “Ministro degli Esteri” del Vaticano, al Corriere della Sera ha reinterpretato e messo una pezza all’improvvida intervista rilasciata ad una TV svizzera da Papa Francesco, nel corso della quale ha invitato l’Ucraina ad avere il coraggio di deporre le armi: “il coraggio di alzare bandiera bianca”. La posizione del Papa ha trovato ascolto presso il variegato mondo pacifista, ma non presso gli ucraini, che stanno resistendo da più di due anni all’aggressione russa, pagando la resistenza con 30mila morti – ma i servizi occidentali ne contano almeno il doppio – l’emigrazione esterna e interna di milioni di cittadini, la distruzione di intere città, lo stillicidio quotidiano delle bombe, dei droni, dei missili e dei morti. Né poteva trovare ascolto presso le cancellerie europee, che sentono il fiato sul collo dell’orso russo, né presso la Nato.

Papa Francesco ha avanzato l’idea ottimistica che tutte le guerre finiscono con un accordo. La notizia è decisamente falsa. Finiscono con una sconfitta. Dopo la quale si fa un accordo, che, ovviamente, è a favore dei vincitori. La Prima guerra mondiale, la Seconda, la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, la guerra Iraq-Iran, le guerre di occupazione in Afghanistan, prima russa e poi americana – solo per rimanere nel recinto dell’ultimo secolo e qualcosa – hanno tutte quante registrato uno sconfitto e un vincitore, che ha dettato le condizioni. Nel caso ucraino, la bandiera bianca significherebbe semplicemente prendere atto che l’azione di forza di Putin di annessione dell’Ucraina all’ex-impero sovietico è premiata.

Certamente si avverte una rottura culturale di questo Papa rispetto, per esempio, a Giovanni Paolo II, che nel 1993 dichiarava: “Se le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli stati non hanno più il ‘diritto all’indifferenza’”. Parlava delle guerre jugoslave. O rispetto al Cardinale Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI, che il 4 giugno del 2004, nel 60° anniversario dello sbarco in Normandia, diceva: “Quando il diritto è distrutto, quando la giustizia perde il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa. Certamente la difesa dei diritti può e deve, in alcune circostanze, far ricorso ad una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza”.

Papa Francesco obbietta che oggi esiste il rischio di uno scontro nucleare, dopo il quale non ci sarebbero più né vinti né vincitori. Ma questo rischio esiste dal 1949. Paradossalmente su questo rischio condiviso, cioè sull’equilibrio del terrore è, d’altronde, realisticamente fondata la pace mondiale. Putin agita di volta in volta il ricatto nucleare, ben sapendo che ne sarebbe anche lui una vittima e che si tratta di una pistola puntata anche alle sue tempie.

Quali sono i presupposti culturali del pacifismo assoluto di Papa Francesco? Intanto, l’idea, più volte ripetuta, che le guerre sono il prodotto dei mercanti di armi. È osservabile il fatto che quando si prepara e quando si combatte una guerra, le aziende che producono armi incrementano la produzione e i relativi profitti. Ma la sua interpretazione secondo le categorie causa/effetto richiede un vaglio meno grezzo. Perché le guerre le generano gli stati, cioè la politica. Se sono democratici, sono le società civili che le decidono, mediante Parlamenti democraticamente eletti. Se si tratta di stati a regime autocratico, il potere politico decide, senza controllo. In caso di guerra, offensiva o difensiva, aumenta la produzione di armi. Che può aumentare anche per impedire la guerra. Migliaia di ordigni nucleari, carri armati, aerei, missili, portaerei e sottomarini sono stati costruiti per deterrenza: una corsa al riarmo non per fare la guerra, ma per impedirla. Ne consegue che è perfettamente inutile scagliarsi contro i produttori di armi. Ha maggiore senso scagliarsi contro lo stato che ha voluto la guerra. La produzione di armi è conseguenza di una politica di guerra, non ne è la causa.

Che questa volta sia Putin ad averla voluta non esistono dubbi e che sia Putin ad occupare il territorio di uno stato non suo e a lanciare ogni giorno missili e bombe lo vedono tutti. A meno che Papa Francesco adombri un’altra spiegazione: che è stata la Nato, “abbaiando ai confini della Russia”, a provocare Putin. E che dunque Zelensky starebbe conducendo una guerra per conto della Nato, cioè degli Usa, una guerra per procura, sacrificando tuttavia migliaia e migliaia di propri concittadini. È dunque l’Ucraina-Nato che si deve fermare. Se gli ucraini smettono di resistere, automaticamente Putin si ferma, perché è Putin il vero aggredito. Torna nei propri confini o si ferma dove si trova ora? Il fatto è che Putin vuole l’Ucraina, non la pace. Se la volesse, basterebbe che sospendesse i bombardamenti. Vuole la pace alle sue condizioni: che gli ucraini si consegnino ai russi.

Non stupisce che questa singolare analisi di Papa Francesco sia condivisa da tutta la sinistra radicale europea e italiana e dalla destra populista europea e in Italia dalla Lega e dal M5S. Il Papa ha circonfuso questo pacifismo di un’aureola morale. Esso è molto diffuso, perché interpreta perfettamente le paure e le pigrizie dell’opinione pubblica europea, che dal 1945 non ha più versato sangue in nessuna parte del suo territorio. La guerra è tornata in Europa e gli europei non la vogliono vedere. Non vogliono prendere atto che in Europa e nel mondo il ciclo della pace, incominciato nel 1945, è finito, che ci troviamo in un rischioso periodo di transizione e che l’avvio di un nuovo ciclo di pace è possibile, solo se i dittatori del pianeta saranno costretti a stare al loro posto. In particolare, se i russi torneranno nei loro confini, se i cinesi non annetteranno Taiwan, se l’Iran smetterà di incendiare l’intero Medio Oriente, se le potenze democratiche si mobiliteranno per difendere il diritto internazionale e l’integrità territoriale degli stati, se gli USA non si rinchiuderanno in un isolazionismo fasullo, dal quale li trasse brutalmente fuori Pearl Harbour il 7 dicembre 1941.

Gli inglesi che applaudirono entusiasticamente Lord Chamberlain all’aeroporto, reduce dalla Conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938, che aveva consegnato la Cecoslovacchia a Hitler, avevano alle spalle appena vent’anni esatti dalla fine della Prima guerra mondiale. Le famiglie europee stavano ancora piangendo i propri caduti. Non avevano nessuna voglia di ricominciare. Eppure, fu per quello che un anno dopo dovettero incominciare di nuovo. Si può capire il pacioso pacifismo degli europei di oggi, che hanno alle spalle ottant’anni di abitudine alla pace e al benessere. Questa storia è finita.

Eppure, quale governo democratico in Europa ha il coraggio di dire verità ai propri cittadini: che la pace è finita, che bisogna investire sulla difesa, che pertanto occorre forse abbassare il livello di benessere? Il pacifismo europeo ha alla base queste paure, queste pigrizie intellettuali e morali, questa ideologia della resa. Poiché il motore della guerra non sono i produttori di armi, ma gli stati grandi, medi e piccoli, l’unico modo per impedirla è la costruzione di un nuovo ordine, basato sul diritto internazionale, sul rispetto dell’integrità degli stati. Non si può esportare la democrazia, si deve impedire di esportare la dittatura. Una nuova pace è possibile. Ma non si può fondare sulla resa al più forte.

Libertà Eguale