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Educazione di genere. Graziella Priulla, sociologa della comunicazione, parla di Donne e della Bellezza delle parole

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di Rosanna La Malfa

Graziella Priulla è una sociologa della comunicazione e della cultura, docente prima associata e poi ordinaria di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Catania. Svolge attività di formatrice sui temi della differenza di genere.

Ho letto che hai scritto un saggio sulla comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Potresti dire ai nostri lettori su cosa verte la tua idea? 

Lo Stato italiano è esteso e costoso come tutte le democrazie europee, però è più debole e inefficace degli altri. Il senso di insopportabilità verso il ‘mostro’ amministrativo ce lo trasmettono i mass media, gli altri Paesi, il nostro stesso vissuto.

Eppure l’Italia vanta una normativa sulla pubblica amministrazione tra le più avanzate al mondo, che riconosce alla comunicazione – chiara, esauriente, supportata da una rete di strutture, servizi e figure professionali adeguati – un ruolo cruciale. Purtroppo alla modernità delle leggi si contrappone l’inerzia delle prassi.

In quel saggio ho cercato di descrivere uno scenario affollato di contraddizioni, tra punte di eccellenza e vaste aree di immobilismo

Crisi della scuola e declino del paese. Situazione drammatica. Possibili soluzioni?

Basta leggere le statistiche per capire che nel nostro Paese impera l’analfabetismo funzionale, e che le prime vittime del crollo della curiosità culturale e del senso critico sono le nuove generazioni. Ricerche internazionali rilevano che i ragazzi italiani si collocano agli ultimi posti, tra i loro coetanei europei, per competenze linguistiche, logiche e matematiche. Ed è esperienza comune la loro difficoltà a tradurre le idee in pensiero articolato, in discorso logico, in scrittura.

Soluzioni possibili? Riportare la scuola ad essere una priorità nazionale (utopia?). Ridare un prestigio sociale agli insegnanti, ma anche selezionarli con maggior rigore.

Il problema però – prima che dell’istituzione scolastica – è dell’intero sistema socioculturale, vittima del pensiero corto, della smania consumistica, dell’asservimento alle sole leggi del mercato. A livello politico si è perfino sdoganata l’ignoranza, alla ricerca affannosa del consenso; nelle famiglie si aspira al pezzo di carta, indipendentemente da come sia stato conseguito. Queste considerazioni mi portano a un certo pessimismo, accresciuto dal fatto che negli ultimi anni il contesto mi pare progressivamente deteriorato.

Le parole, la forza delle parole. In un clima dove il linguaggio dell’odio la fa da padrone, specie in politica, come può reagire un cittadino?

Su questo tema ho scritto un libro che ho intitolato “Parole tossiche”. Come l’aria inquinata danneggia i nostri polmoni, come i cibi inquinati rovinano il nostro apparato digerente, così il linguaggio malato deteriora il nostro cervello. Solo che di questo non ci rendiamo conto, poiché il cervello non tossisce e non vomita in modo visibile. Spesso ci limitiamo a pensare che la lingua sia solo un repertorio convenzionale di segni, dimenticando che è anche azione: codice di scambio, certo, ma anche processo che impercettibilmente e progressivamente struttura la nostra visione del mondo.

In Italia esiste, e negli ultimi decenni abbiamo permesso che diventasse forte, una cultura razzista, omofoba, sessista, che amplifica i borborigmi della pancia del Paese. È lo spettro di una regressione culturale. Interrogarci sugli automatismi verbali collusi con il potere e la violenza, contrastare le cristallizzazioni provando a chiederci quale prospettiva sottintendono, sottrarci ad inerzie linguistiche apparentemente innocue, non cedere alla pigrizia di rifugiarci nelle frasi fatte e negli stereotipi sono sani esercizi di dissenso che dovremmo sforzarci di praticare il più possibile, pratiche concrete di smarcamento.

Il sessismo. Da dove cominciamo?

Intanto dalla definizione, non sempre condivisa: stereotipizzazione, irrisione o svalutazione di un genere (nella stragrande maggioranza dei casi quello femminile). Molti atteggiamenti contemporanei possono essere interpretati come diffidenza o resistenza rispetto ai processi di modernizzazione che cercano di riequilibrare il potere fra i generi. Poiché il sessismo ha una storia antica, che risale addirittura alla filosofia greca, è difficile da sradicare. Oggi la costruzione delle identità è assai più complessa e più ricca rispetto al passato, eppure in molti punti è ancora influenzata dalle antiche modalità di costruzione dei generi. Viviamo in una società tecnologicamente avanzata ma molti sono ancora analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale. Le disuguaglianze tra i generi non sono ancora state colmate. Secondo me il piano educativo è essenziale per la formazione di identità, linguaggi e orientamenti che, senza negare le differenze biologiche, le privino della carica di violenza, incertezza e mistificazione che hanno accompagnato storicamente le relazioni tra uomini e donne. Ovviamente il ruolo maggiore è quello della famiglia. Il mondo della scuola potrebbe però anch’esso far molto per valorizzare la personalità di ciascuno e di ciascuna, acuire la capacità di ascolto e rispetto reciproci, orientare studenti e studentesse a mettere a frutto nel modo migliore i loro talenti e ad essere in grado di instaurare relazioni solide e di partecipare proficuamente alla vita democratica.

Mi ripeto. Il femminicidio. Da dove iniziamo?

Su questa risposta non ho dubbi: dall’educazione dei piccoli maschi.

Che cosa c’è dietro quella strage che definiamo femminicidio, che cosa c’è dietro i milioni di violenze che si attuano ogni giorno nelle famiglie, se non il picco, tragico e impotente, di un modo malato di intendere se stessi, l’altra e l’amore? La cronaca nera è scomodo ma eloquente punto di riflessione sulla paura del cambiamento, sull’ansia causata dalla sparizione dei ruoli tradizionali, sull’incapacità di gestire in modo maturo la frustrazione narcisistica dell’orgoglio ferito, sul legame come protezione fobica rispetto alla paura e alla solitudine. Nel vocabolario maschile non ci sono mai state le parole per dire la paura e lo smarrimento, la fragilità e i desideri. Coloro che per millenni sono stati i dominatori del mondo da tempo non lo sono più e oscillano tra gli orizzonti inediti, che li inquietano perché sono sconosciuti, e la nostalgia degli antichi privilegi e delle antiche certezze, che però li privavano di interi pezzi di vita. Un rapporto di coppia libero e paritario in cui l’uomo e la donna possano comunicare, interagire (e magari dissentire) in maniera costruttiva e rispettosa: ciò che molti danno per scontato è qualcosa che molti altri riescono a malapena a immaginare, immersi come sono in un ambiente sociale che incoraggia la superficialità e autorizza il reciproco disconoscimento. Il cambiamento necessario è innanzitutto la rottura di uno schema mentale.

La libertà difficile delle donne. Ragionando di corpi e di poteri. È il titolo di un tuo saggio. Argomento intenso.

L’esercizio di controllo della riproduzione umana rappresenta il fondamento di tutte le altre forme di controllo.

Ogni potere – da quello religioso a quello politico – interviene sui corpi. Prima ancora di approntare sistemi di strutture e di norme, costruisce ordini simbolici che ne descrivono alcuni usi come naturali e legittimi mentre ne interdicono altri come innaturali o perversi. La posta in gioco è alta: riguarda la sfera intima delle persone, la sessualità e la riproduzione. Regolamentandole si regolamenta la società, ed è con il controllo delle donne che viene garantita la purezza della linea di discendenza, ritenuta essenziale per la vita comunitaria. Nel corso del ‘900 i movimenti femministi hanno portato sulla scena della storia, della cultura, della politica le vicende che riguardano il corpo, svelando le discriminazioni, le subordinazioni, le cancellazioni che per secoli il genere femminile ha dovuto subire, le gabbie che l’hanno rinchiuso. Eppure meccanismi invisibili, ingiunzioni silenziose ancora condizionano la nostra libertà, mentre conquiste che credevamo acquisite vengono rimesse in discussione, e le parole chiave del femminismo subiscono una torsione che rischia di stravolgerne il senso.

In questo clima di intolleranza, come le persone democratiche possono reagire?

Posso usare un paradosso? Con la gentilezza, assieme al rigore intellettuale che contrappone il ragionamento e la documentazione allo slogan e all’invettiva. Non è solo una faccenda di educazione formale: è un problema politico, di frustrazione individuale e di anomia sociale. Le abitudini cortesi e i linguaggi rispettosi semplificano la vita, gratificano, distribuiscono minimi segnali di quel riconoscimento di cui tutti abbiamo bisogno: perché dovremmo privarcene? Il linguaggio ci avvelena solo se glielo consentiamo. Il futuro potremo inventarcelo più degno solo se riprenderemo a pretendere da noi stessi e dagli altri che le parole e i toni vengano usati con attenzione e onestà, coraggio e coerenza.

Il femminismo oggi. Esiste ancora? Se sì, ha un significato diverso nel millennio duemila?

Grazie al lungo percorso della riflessione femminista, nonostante molte difficoltà ancora presenti, la differenza di genere nelle forme vissute dalle donne e dagli uomini è diventata un’imprescindibile chiave di lettura della storia passata e attuale, dei rapporti di potere, dei modelli culturali, delle modalità della rappresentanza, dell’accesso alle risorse materiali e simboliche.

Ad ogni generazione però, bisogna ricominciare daccapo.

Incoscienti del fatto che le nostre conquiste siano recenti e dunque fragili, le ragazze di oggi sono convinte che i diritti ereditati siano un dato di fatto e non il risultato di un lungo scontro ancora in atto. Nipoti di nonne nate in un Paese arcaico e un po’ bigotto, che lottarono perché la condizione fortuita di nascere maschio o femmina non determinasse un destino di diritti disuguali, non hanno dimestichezza col femminismo; spesso non ne hanno neanche conoscenza, se non come obsoleto stereotipo; con rare eccezioni, non ritengono che le possa riguardare. La cultura nella quale sono cresciute l’ha raccontato in modo distorto, caricaturale, o semplicemente l’ha rimosso. La scuola lo ignora, così come spesso sottovaluta il suo compito di stimolo del pensiero critico e di contrasto agli stereotipi.

Stereotipi di genere. A Natale alle bimbe le bambole, ai bimbi le auto. Vorrei un tuo parere.

La maggior parte dei giocattoli in commercio (oggi ancor più che in passato) è concepita in vista dei diversi ruoli e delle diverse aspettative relative ai maschi e alle femmine, fin dai format più elementari. La pressione dell’industria è molto forte, su un target particolarmente indifeso e particolarmente influente sulla vita delle famiglie: la fidelizzazione alle marche ormai comincia a due anni. Tra i giocattoli dei maschi dominano oggetti ricchi di informazioni sugli aspetti geometrici e fisici del mondo. Molto diffusi poi, sono i giocattoli in vario modo ispirati alla guerra, o ad eroi superpotenti. Valorizzano la competizione: avere il controllo, avere il potere, conquistare, comandare. I giocattoli per le femmine sono frequentemente oggetti da accudire, capaci di indurre un attaccamento personale ed emotivo, oppure strumenti per la cura del proprio corpo, da rendere attraente e seduttivo. Sono meno incoraggiate ad essere creative, a fare e a costruire, a prendere il controllo del loro ambiente: si prevede che ci sia qualcun altro a farlo per loro. Già nella prima infanzia si impara a chiedere i giocattoli “giusti”, consapevoli che quelli “sbagliati”, cioè quelli che non rispettano gli stereotipi dei ruoli, saranno negati nella quasi totalità dei casi. Le bambine e i bambini sono inoltre maggiormente accettati nei gruppi se giocano con i giocattoli “adeguati” al proprio sesso. Il desiderio di accettazione, la voglia di continuare a giocare e il timore di reazioni negative, non presunte inclinazioni “innate” rappresentano i fattori motivazionali che contribuiscono a determinare la scelta di un gioco o di un altro.

Tu, oltre che saggista e sociologa, sei insegnante. Cosa ti senti di dire ai giovani, ai genitori, ai docenti di oggi e di domani?

Non ho la presunzione di offrire ricette. So però per esperienza che sono necessari profondi cambiamenti nell’impostazione dei modelli di socializzazione.

Per quanto riguarda il nostro tema, rileggerli in una nuova prospettiva significa

  • renderne evidente la struttura come stratificazione non delle esperienze di tutta l’umanità, ma di una parte di essa;
  • fare proposte di conoscenza non acquiescenti rispetto a un patrimonio già dato;
  • sviluppare nei giovani le capacità critiche, offrire il senso della storicità delle conoscenze, della loro non univocità;
  • rendere la scuola ambiente che si rinnova attraverso la comprensione, gli sguardi e i bisogni di chi vi si avvicina, perché saperi vitali transitino sia attraverso le passioni di chi insegna, sia attraverso i vissuti di chi apprende.

Non porre a tema, attraverso una critica educativa, le culture degli stereotipi, di fatto li legittima.

 

 


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