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"Ecco perché abbiamo avuto ragione a scegliere chi intubare e chi no"

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“Ci hanno criticato per settimane facendoci passare per i giudici supremi che volevano decidere chi doveva vivere o morire. Ma la situazione si è rivelata ben diversa”.  Marco Vergano, medico anestesista rianimatore al San Giovanni Bosco di Torino, è stato tra i redattori delle raccomandazioni in 15 punti rivolte a migliaia di colleghi dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) all’inizio dell’emergenza coronavirus, ai primi di marzo.

A creare polemiche, anche in ambito scientifico, era stato in particolare questo passaggio che ipotizzava di mettere un limite di età all’ingresso in Terapia Intensiva: “Non si tratta di compiere scelte meramente di valore ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi in primis ha più probabilità di sopravvivenza”.

Ora, dalle sue considerazioni emerge la convinzione di avere fatto la scelta giusta per quelle che erano le condizioni nel momento di massima espansione del contagio. “Nel frattempo – spiega all’AGI – sono successe due cose. La prima è che la Terapia Intensiva non si è  dimostrata la panacea come si credeva. Anzi. La mortalità di chi c’è entrato, secondo alcuni studi preliminari fatti a New York, è stata addirittura dell’88%, mentre in Italia si attesterebbe, stando ai primi riscontri, intorno al 50%. Sono dati impressionanti. La Terapia Intensiva ha rappresentato quindi una possibilità in più, ma anche gravata da molti rischi e complicanze ulteriori. Io e altri colleghi abbiamo avuto pazienti che abbiamo deciso di non intubare perché giudicati al di là dei criteri che ci eravamo dati e sono sopravvissuti con altre cure. La mortalità dei pazienti non intubati è stata decisamente inferiore.

La seconda considerazione  – prosegue – è che sul territorio e nelle case di riposo è mancata la protezione dei soggetti anziani e fragili, che ha portato a un numero di morti enormemente superiore rispetto ai pazienti oggetto delle nostre scelte di allocazione. Insomma si è guardato il ‘dito’ delle nostre scelte e non la ‘luna’”.

Su questo aspetto, Vergano osserva che “c’è stato imputato di avere osato scegliere di non intubare un 90enne, che sarebbe morto comunque in Terapia Intensiva e per cui comunque sono state garantite tutte le cure appropriate, mentre nel frattempo molti suoi coetanei sono morti fuori dall’ospedale nella più totale disattenzione politica e mediatica, almeno inizialmente”. 

“Noi – chiarisce  – avevamo scritto che queste scelte si intendevano lecite (e doverose) in base a criteri espliciti e condivisi, e solo dopo ogni sforzo per garantire posti intensivi in altri ospedali. Come di fatto è successo. Averci accusato di essere colpevoli di un atteggiamento discriminatorio è stato ipocrita”. Nelle settimane in cui il virus è diventato pandemia, il documento italiano è stato preso a modello in altri Paesi. “Molti ci hanno imitato per un fatto inevitabile: chi invocava un criterio egualitario e criticava le scelte di triage di fatto non aveva alternative da proporre. L’aspetto interessante è che quasi tutte le istituzioni che – a livello internazionale –  hanno adottato questo orientamento, con sfumature diverse, sono state criticate. Così è accaduto nello Stato di New York e in Massachusetts, in Svezia e in Spagna”.

Alcuni avvocati di case di riposo milanesi hanno ipotizzato per difendere i loro assistiti di utilizzare queste raccomandazioni. “In realtà, erano rivolte ai medici anestesisti – avverte il medico – non alle case di riposo. Se qualcuno dei miei colleghi invece vorrà citarle nell’ambito di un contenzioso, è libero di farlo. Ma tenendo presente che, pur essendo raccomandazioni di una società accreditata dal Ministero, non sono linee guida. Noi estensori abbiamo voluto evitare che nei momenti di massimo afflusso potessero essere usate come ‘lasciapassare’ per compiere alcune scelte un po’ arbitrarie. Scelte che sarebbero peraltro avvenute comunque, magari in modo meno trasparente. Le raccomandazioni autorizzano a compierle  ma pongono rigide condizioni su come devono essere compiute, condivise e documentate.”

Vergano, che ha 45 anni, prova a riflettere sul senso dell’esperienza dopo quelli che definisce “due mesi in apnea”. “Di sicuro ne esco trasformato ed esausto, col bisogno di fermarmi per rielaborare e far sedimentare. Le voci dei ‘negazionisti’ dell’emergenza si sono sopite e c’è stato tanto supporto a livello accademico e istituzionale, oltre a quello di giuristi e filosofi. Lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica ha pubblicato ad aprile un documento in cui prevede il ‘triage in emergenza pandemica’. Le critiche subite per le raccomandazioni mi hanno costretto a ‘indurirmi’, in senso buono, per difendere le mie posizioni che ho sintetizzato pochi giorni fa in una discussione sul British Medical Journal”. (AGI)

Vedi: "Ecco perché abbiamo avuto ragione a scegliere chi intubare e chi no"
Fonte: cronaca agi


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