(AGI) Una rilettura attraverso una simulazione di quanto dichiarato da una testimone una ‘nuova’ interpretazione’ delle impronte sul dispenser e dei capelli trovati nel lavandino di casa Poggi. Sono questi i tre punti, a quanto apprende l’AGI, attorno a cui ruota l’istanza di revisione di 22 pagine depositata nei giorni scorsi dalla difesa di Alberto Stasi alla Corte d’Appello di Brescia. Obbiettivo: rivedere il processo che ha portato alla condanna a 16 anni di carcere per avere ucciso la sua fidanzata Chiara Poggi a Garlasco, la cittadina pavese diventata teatro di uno dei crimini più dibattuti degli ultimi anni, nell’afosa mattina del 13 agosto 2007.
Chi ha aperto la finestra?
Secondo il ragionamento della difesa, rappresentata dal nuovo avvocato Laura Panciroli, sarebbe cruciale la deposizione di Manuela Travain, teste sentita più volte nel corso della vicenda, che sostiene di avere visto, passando in auto davanti alla casa del delitto, una bicicletta nera da donna appoggiata sul cancello. In base alle celle telefoniche, come appurato durante il processo di primo grado finito con l’assoluzione di Stasi, Travain è transitata davanti all’abitazione alle 9 e 27 – 9 e 28 perché manda alle 9 e 23 un messaggio che aggancia la cella di casa sua e alle 9 e 30 un altro che rientra nella cella di Dorno, paese vicino a Garlasco, mentre si trova sulla strada per andare a Pavia. La donna racconta di avere visto tutte le finestre della casa chiuse e il cancelletto aperto, una ‘visuale’, la sua, confermata da un esperimento che simula il passaggio alla stessa velocità a bordo di una Peugeot, come quella da lei guidata, mostrato anche dalle ‘Iene’.
Chi ha aperto allora la finestra della cucina del piano terra che alle 13 i carabinieri trovano aperta? Per la difesa, solo Chiara può averlo fatto, il che attesta che era ancora viva alle alle 9 e 27 – 28. A questo punto, argomenta, è impossibile che sia stato l’ex bocconiano a ucciderla perché tra le 9 e 27 – 28 e le 9 e 35, ora in cui Alberto accende il pc a casa sua, sono trascorsi troppi pochi minuti per compiere l’assassinio e tornare a casa.
Una versione contestata dall’avvocato Gian Luigi Tizzoni, legale della famiglia Poggi. “In realtà – spiega all’AGI – il ragionamento sviluppato sia nel processo di Vigevano che in quelli a Milano e poi davanti alla Cassazione, è che non c’è nessun elemento logico per escludere che l’assassino fosse dentro la casa e, magari, abbia aperto la finestra per vedere se c’era qualcuno fuori e fuggire senza essere visto. Inoltre, dalle risultanze processuali, viene fuori che da casa di Chiara a casa sua in bici Stasi avrebbe potuto metterci un arco di tempo da 4 minuti e 38 secondi a 10 minuti. In teoria, anche meno del lasso di tempo che intercorre tra le 9 e 27-28 e le 9 e 35.
Le impronte di nessuno
Il secondo tema dell’istanza, da sempre molto dibattuto, riguarda quello delle impronte digitali di Stasi miste a dna trovato sul dispenser del bagno della vittima. Per la verità giudiziaria passata in giudicato, Stasi, che sta scontando la condanna a Bollate, avrebbe maneggiato il contenitore di plastica per pulirlo dopo essersi lavato le mani e avere mondato il lavandino. Ora la difesa torna su questo punto, sostenendo che oltre a quelle impronte, lasciate da Stasi ce n’erano delle altre su cui non sono stati effettuati approfondimenti e c’erano, inoltre, dei capelli nel lavandino, come attestato da una foto scattata dai carabinieri il 13 agosto. Questo farebbe sorgere dei dubbi sul fatto che il lavandino sia stato effettivamente lavato dopo il delitto. In ogni caso, si fa notare, c’erano altre impronte lì e nel resto della casa non attribuite a nessuno. “Nell’appello bis è spuntata la foto di Chiara Poggi fatta nell’immediatezza del crimine in cui si vede l’impronta di una mano stampata sul pigiama. Non è pensabile che chi ha ucciso non si sia lavato le mani sporche di sangue – dice Tizzoni – Nessuno ha mai nascosto la presenza di altre impronte ma alcune non sono attribuibili a nessuno, altre a chi aveva degli alibi, come un falegname che aveva fatto nei lavori. Alcune addirittura sono dei carabinieri. Non siamo in un film, è normale che non si riesca ad attribuirle tutte. Quel che conto è che quelle di Stasi era al posto giusto e s’inseriscono in un contesto logico da cui lui risulta colpevole.
I capelli nel lavandino
Quanto ai capelli, nessuno ha mai detto che l’assassino fosse ‘Mastro Lindo’ e abbia pulito tutto alla perfezione. Quelli sono capelli attribuibili alla vittima per lunghezza e colore ed è presumibile che l’assassino li abbia lasciati dopo averla colpita a martellate”. Per Tizzoni, «gli elementi indicati nella rivisitazione, se anche uno per uno fossero fondati, non intaccherebbero minimamente i pilastri della sentenza, a partire dall’impossibilità per Stasi di non sporcarsi le scarpe col sangue della vittima alla falsa testimonianza, per cui è stato condannato, dell’allora maresciallo dei carabinieri di Garlasco che non sequestro’ la bici nera da donna della famiglia Stasi, riconosciuta come quella con cui si recò a uccidere Chiara”.
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Fonte: cronaca agi