AGI – È la giornata di Oliver Stone alla Festa del Cinema di Roma, un ritorno dopo la partecipazione del 2016 per quello che è probabilmente il regista più politicamente coinvolto della storia del cinema. Un impegno talmente tangibile che ad oggi si potrebbe tranquillamente considerare la pellicola come il linguaggio a lui più funzionale per portare avanti le proprie battaglie da dissidente anarchico, così come lui stesso si definisce.
Un concetto basilare per comprenderne il personaggio, quello dell’anarchia, Oliver Stone infatti, nonostante sia di gran lunga il cineasta più temuto dall’establishment a stelle e strisce, non si può collocare da un lato o l’altro delle barricate politiche.
Stone nel 1967, all’età di vent’anni, si arruola nell’esercito e dopo pochi mesi viene spedito in Vietnam a combattere nella 25 Divisione di Fanteria e poi nella 1 Divisione di Cavalleria, e rimanendo ferito ben due volte. Da quella guerra nè uscì pluridecorato con la Bronze Star Medal al valore, con la Purple Heart, con la Air Medal per aver partecipato a 25 assalti con gli elicotteri e con la Army Commendation Medal.
Solo al rientro in patria nel 1971 arriva il cinema, alla New York University Film School, allievo di Martin Scorsese, e due anni dopo l’esordio con il cortometraggio “Last Year in Viet Nam”, sua prima sperimentazione di film documentario, che poi diventerà col tempo specialità della casa.
Nel 1974, Stone dirige “Seizure”, filmetto con pretese horror che passa piuttosto inosservato, ma quattro anni dopo arriva l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale di “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, storia realmente accaduta dello studente universitario Billy Hayes, arrestato all’aeroporto di Istanbul per possesso di hashish, condannato inizialmente a quattro anni e due mesi di reclusione e in seguito all’ergastolo nel carcere di Samalclar; una storia nella quale Oliver Stone si riconosce essendo finito ben due volte in carcere per possesso di marijuana.
Un rapporto con la droga che ai tempi era piuttosto intenso ma che straordinariamente, Stone riesce a trasformare in una sorta di terapia: qualche anno dopo infatti, siamo già agli inizi degli ’80, Brian De Palma lo invita a partecipare alla stesura della sceneggiatura del suo prossimo lavoro dal titolo “Scarface”, gangster-movie diventato un cult definitivo del filone,scritto da Stone proprio mentre percorre il proprio percorso di disintossicazione.
È così che Stone affronta i propri fantasmi, esorcizzandoli su carta prima e pellicola dopo; nel 1986 è già noto e apprezzato nel mondo del cinema ma la carriera di regista stenta a decollare, i suoi primi due film sono horror che pubblico e critica snobbano in scioltezza.
Ma è quando mette su schermo le proprie battaglie che Stone riesce a comunicare l’autenticità del proprio fare arte, così il primo film degno di nota del regista newyorkese è certamente “Salvador”, storia di un giornalista cinico e opportunista (interpretato da James Woods) che vuole fare un servizio sulle atrocità della guerra civile di El Salvador.
Ma il 1986 è anche l’anno in cui esce “Platoon”, non solo uno dei suoi film più celebri ma anche quello che rappresenta la prima battaglia vinta contro una Hollywood che non vede (e non vedrà mai) di buon occhio la scomodità dei suoi intenti cinematografici.
“Platoon” è infatti un film in cui è netta la condanna a quel concetto di guerra che lo stesso Stone ha personalmente e volontariamente assaggiato in Vietnam; tant’è che in realtà la stesura della sceneggiatura è cominciata proprio al rientro da quella discussa campagna militare.
Nel 1987 Oliver Stone è certamente il protagonista della serata degli Oscar, vince la statuetta per la miglior regia e due nomination per la migliore sceneggiatura originale, una per “Salvador” e una per “Platoon”, un film talmente riuscito che si dice che Stanley Kubrick dopo averlo visto decise di rimandare di un anno l’uscita del suo “Full Metal Jacket”. è un periodo particolarmente fortunato, è sempre il 1987 quando Stone realizza un altro progetto al quale tiene molto e sta lavorando da due anni, esattamente dalla morte del padre Louis, agente della borsa fin dai tempi della grande depressione e al quale dedica “Wall Street”.
Anche in questo caso la narrazione cruda e spregiudicata crea un personaggio senza tempo, quello di Gordon Gekko, probabilmente ispirato allo squalo della finanza Carl Icahn, interpretato da un Michael Douglas da Oscar, un personaggio talmente realistico nel suo cinismo che qualsiasi spietato affarista da quel momento in poi nella storia sarà considerato un “Gordon Gekko”, come se fosse una maschera che porta all’eccesso la passione per il guadagno.
Dopo la parentesi “Talk Radio”, Stone torna a raccontare il Vietnam, stavolta però utilizzando i ricordi del veterano Ron Kovic, che ha scritto il romanzo “Nato il quattro luglio”, storia di un diciottenne che ispirato dalla figura di John Fitzgerald Kennedy si arruola e parte per il Vietnam, ma una volta tornato in patria su una sedia a rotelle e resosi conto degli orrori e dell’insensatezza della guerra, diventa un’icona pacifista.
E si torna agli Oscar: Stone porta a casa due statuette sulle otto per le quali gareggia, quella per il miglior montaggio e quella per la migliore regia, la seconda giunto solo all’ottavo film della sua carriera. Lo stile intenso e realistico del cinema di Stone lo porta ad essere adatto al racconto di uomini particolarmente definiti, non per forza buoni, ma certamente a proprio modo eterni; non è un caso dunque che gli anni ’90 si aprono con la lavorazione di “The Doors”, biopic su Jim Morrison, e con quello che si rivelerà la sua dichiarazione di guerra ufficiale a Washington.
Parliamo di “JFK – Un caso ancora aperto”, film che ripercorre la battaglia del procuratore distrettuale Jim Garrison, che fu colui che condusse un’inchiesta sull’omicidio del presidente Kennedy che andava in totale controtendenza rispetto a quella commissione Warren che aveva archiviato velocemente e definitivamente la faccenda trovando in Lee Harvey Oswald l’unico ideatore ed esecutore del delitto più clamoroso della storia. Il film è ispirato al romanzo scritto dallo stesso Garrison, quando Stone lo lesse si precipitò ad acquistarne i diritti, la volontà di realizzare un film su un avvenimento per lui cruciale non solo nella storia degli Stati Uniti fu ferrea.
“L’assassinio di Kennedy – scrive lo stesso Stone nelle note di produzione della pellicola – ha profondamente turbato la mia generazione e la nostra cultura. Penso che molti dei nostri problemi, la sfiducia nel governo, siano iniziati nel 1963. Da allora non abbiamo più creduto ai nostri leader. Gli americani sono diventati sempre più cinici. Non votano. I giovani non votano. Il Paese da allora ha conosciuto gli scontri razziali e una vera guerra civile”.
Il film ebbe un notevole successo, forse sospinto anche in qualche modo dalle critiche, alcune addirittura preventive all’uscita nelle sale, di stampa e rappresentanti del governo; critiche simili a quelle che accompagnarono la stessa inchiesta di Garrison.
Il successo del film e lo scalpore suscitato dalla tesi del complotto in esso contenuta comunque portarono alla creazione dell’atto di legge “President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act of 1992” (conosciuto anche semplicemente come “JFK Act”) e alla formazione di una commissione d’inchiesta denominata “U.S. Assassination Records Review Board” incaricata di riesaminare l’inchiesta successiva all’omicidio di Kennedy.
Per Stone fu l’ennesima raccolta di nominations all’Oscar, ancora otto, ancora due portate a casa: migliore fotografia e miglior montaggio. Nel 1993 Stone dirige il terzo film della trilogia sul Vietnam, “Tra cielo e terra”, il meno fortunato nonostante non sia andato male al botteghino. Nel 1994 invece esce “Assassini nati – Natural Born Killers”, diretto da Oliver Stone da un’idea di Quentin Tarantino; un binomio che ad oggi farebbe sognare qualsiasi appassionato di cinema ma che in realtà si rivelò estremamente tormentato.
Stone acquistò da Tarantino la sceneggiatura per 400mila dollari, il film scritto da Tarantino, all’epoca ancora agli esordi, probabilmente giocava su quell’affascinante equilibrio tra dialoghi serrati e brillanti a scene di violenza cruda, la formula che poi sarà alla base della fortuna dei suoi film, ma Stone non la pensava allo stesso modo e il copione ne uscì rivoluzionato.
La leggenda che non può che ammantare figure così mitologiche della storia del cinema moderno, racconta di un Tarantino infuriato che avrebbe lottato per far togliere il suo nome dai titoli di testa e che arrivo’ addirittura allo scontro fisico con Stone in un bar, che ne uscì con il setto nasale rotto.
Ma questa è, appunto, leggenda; abbastanza credibile però che l’uscita di “Natural Born Killers” costrinse Tarantino a rimandare l’uscita di “Pulp Fiction”, ed è così la seconda volta che un lavoro di Stone obbliga un genio del cinema a, rispettosamente, mettersi da parte per non subirne l’inevitabile ombra.
Nel 1995 Stone spiazza nuovamente i suoi fans con l’uscita di “Gli intrighi del potere – Nixon”, un film che molti si aspettavano fosse la quintessenza del cinema “contro” del cineasta, ma che in realtà risulta molto morbido verso una delle figure più evidentemente controverse della politica statunitense.
Nonostante il film non vada straordinariamente bene al botteghino Stone torna da protagonista agli Oscar con quattro nominations. Dopo il flop di “U Turn – Inversione di marcia” che valse a Stone addirittura una nomination ai Razzie Awards come peggior regista, Stone torna ad accaparrarsi il grande pubblico (ma non la critica) con “Ogni maledetta domenica”, ambientato nel controverso mondo del football americano.
Un film che passerà alla storia per mostrare uno dei monologhi più citati della storia del cinema, quello in cui Al Pacino, alias Tony D’Amato, coach degli Sharks di Miami, incita la squadra negli spogliatoi prima dell’ultima partita.
Si apre con tre documentari di matrice essenzialmente politica, due conversazioni con l’amico Fidel Castro (“Comandante” e “Looking for Fidel”) e “Persona non grata”, sui conflitti arabo-israeliani in Palestina.
Nel 2004 esce nelle sale il criticatissimo “Alexander”; il film si rivela il più costoso della carriera del regista con una spesa di 155 milioni di dollari, che rientreranno nelle casse della produzione nonostante la pellicola venga letteralmente fatta a pezzi dalla critica, ricevendo addirittura 6 nomine ai Razzie Awards, tra cui quella per il peggior regista.
Dopo l’omicidio Kennedy, nel 2006 Oliver Stone torna a toccare un nervo scoperto degli americani: gli attentati dell’11 settembre. Anche in questo caso pubblico e critica sono pronti a sedersi in sala col coltello tra i denti, se le teorie complottiste attorno all’omicidio Kennedy essendo lontane sono ancora digeribili, la sensibilità attorno agli attentanti alle Twin Towers restano costantemente argomento luttuoso e delicato per gli statunitensi.
Ma il film alla fine non è altro che un semplice omaggio all’eroismo e alla tragicità di quel fatidico giorno, senza alcuno sfondo politico-ideologico. Ma per ritrovare l’Oliver Stone impegnato politicamente basta aspettare un paio d’anni, nel 2008 infatti esce “W.”, biopic su George W. Bush, pellicola nella quale il presidente viene descritto come un bifolco ignorante e megalomane, un alcolizzato che vive con difficoltà il confronto con il padre; un attacco frontale che fa saltare diverse proiezioni in paesi filo-americani, compresa l’Italia.
Nel 2012 torna sul tema della violenza in “Le belve”; questa volta la critica sarà diretta alle forze dell’ordine ed alle amministrazioni americane che, secondo il regista, al posto di vincere il problema del traffico illegale di droghe fa in modo di spostare il problema al confine con il Messico. è evidente che l’intenzione di Oliver Stone è quella di dire la propria su tutti i grandi fatti della storia moderna, è probabilmente in quest’ottica che non puo’ mancare il film “Snowden”, tecnico informatico ex dipendente della CIA responsabile della rivelazione di informazioni segrete governative su programmi di intelligence; una cruda riflessione sull’etica che circonda il sistema difensivo statunitense.
Nel 2022 Oliver Stone tornerà in sala, dirigerà Benicio Del Toro in “White Lies”, una sorta di epopea familiare e generazionale ambientata a New York, ma alla Festa del Cinema presenterà “JFK – Destiny Betrayed”, serie in quattro episodi in cui Stone riesamina i nuovi documenti fino ad oggi secretati riguardanti l’omicidio Kennedy.
Oliver Stone è senza dubbio il regista che più di tutti gli altri ha dato un valore politico al linguaggio cinematografico, ne ha stiracchiato gli orizzonti rispetto a quello che un film non solo è ma può significare.
Ha anche dato occasione di rileggere la figura dell’artista rispetto alla politica, allontanandola dal clichè dell’artista sinistroide, in questo caso smaccatamente democratico, infatti Oliver Stone negli anni ’80, anzi, ha sostenuto Ronald Reagan ed è stato molto vicino alla destra libertaria di Ron Paul; allo stesso tempo ha dichiarato il suo sostegno alla presidenza di Barack Obama, salvo poi denunciarlo aspramente per le sue scelte in ambito militare, definite più disastrose di quelle di George W. Bush, e per aver creato “Il più massiccio stato di sorveglianza di sicurezza globale mai visto, ben oltre quello della Stasi della Germania dell’Est“.
Oliver Stone dunque è un regista anarchico, cui contenuti sono più importanti dei contenitori, delle tessere di partito, delle manifestazioni in piazza, un artista che ha messo il proprio cinema ad esclusivo servizio del proprio pensiero.
Source: agi