AGI – Il mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice incinta “ben può integrare una discriminazione basata sul sesso”. Lo rileva la Cassazione, affrontando il caso di una donna, precaria in un ente di ricerca, alla quale, a differenza dei colleghi nella sua stessa situazione contrattuale, non era stato rinnovato il contratto di lavoro: per questo, aveva avviato una causa contro l’ente in cui era stata impiegata, denunciando la “natura discriminatoria” della mancata proroga del termine del contratto collegandola al suo stato di gravidanza.
La Corte d’appello di Roma aveva respinto il suo ricorso, che, invece, è stato dichiarato fondato dai giudici della sezione lavoro della Cassazione: nella sentenza depositata oggi, la Suprema Corte ricorda che “la discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità costituisce una forma particolare di discriminazione di genere” e ripercorre il “complesso corpus di legislazione primaria e derivata” sviluppato dall’Unione Europea e, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, il Codice delle pari opportunità del 2006 che si è “specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso – ricordano gli ‘alti’ giudici – sul piano sostanziale le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi”.
Nel caso in esame, dato che “a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi – osserva la Cassazione – ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza”.
I giudici d’appello, si legge ancora nella sentenza, “hanno errato” nel rimarcare che la lavoratrice “avrebbe dovuto fornire elementi circa i contratti prorogati e/o rinnovati agli altri suoi colleghi”, perché così hanno “finito per porre a carico della ricorrente una prova piena di tutti gli elementi significativi di una discriminazione”, mentre “il legislatore ha posto a carico della stessa solo la dimostrazione di una ingiustificata disparità di trattamento o anche solo la posizione di particolare svantaggio”, restando per il resto “a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione”.
Sulla base dei principi delineati dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma dovrà riesaminare il caso.
Source: agi