di Giovanni Cominelli
La decisione del governo di varare il “Decreto-legge Caivano”, che prevede misure cautelari più severe per i minori, “Daspo”, foglio di via, misure di contrasto alle “baby gang”, ammonimento, misure sul processo penale a carico di imputati minorenni e istituti penali per minorenni, è stato oggetto di forti contestazioni: panpenalismo giudiziario, la Destra securitaria ama la repressione, il carcere non fermerà la criminalità giovanile, occorre la prevenzione, servono scuole, non carceri, serve un esercito di insegnanti, educatori, psicologi, assistenti sociali e, dulcis in fundo, un sacco di soldi…
Un paio di cose, tuttavia, sono sottovalutate in questa discussione.
La prima è la questione della sicurezza. Vero è che esiste una differenza tra la sicurezza reale e quella percepita. Le ricerche sociali e i sondaggi di N. Pagnoncelli documentano che la sicurezza reale è di molto superiore a quella percepita.
Accade anche che un interpellato si trovi al sicuro nel proprio ambiente, ma che attribuisca insicurezza ad ambiente lontani che non conosce. In ogni caso, la sicurezza del proprio corpo è un bene primario, pre-condizione di ogni altro.
Viene prima della proprietà e della libertà, al punto che, in nome della sicurezza, reale o presunta, gli esseri umani spesso rinunciano alla libertà. Quando viene meno la sicurezza? Quando sono violate le leggi, quando la legalità viene fatta a pezzi.
Un giornale, a proposito di Caivano, ha titolato: “E’ il fallimento dello Stato”. Polemicamente, si intende il fallimento del governo e/o dell’Amministrazione comunale, che l’opposizione di turno intende cavalcare. Tuttavia, se di fallimento si deve parlare è di quello della società civile, in primo luogo.
Chi ha fallito a Caivano non è lo Stato, sono le famiglie, gli educatori, presidi e insegnanti e le agenzie a vario titolo educative. Falliscono il paese, il quartiere, il condominio.
È il silenzio omertoso che favorisce un clima di illegalità, di micro-violenze, di bullismo, di sopraffazione. È il fallimento educativo il problema. Giacché non tocca allo Stato educare. Lo Stato non è in grado di sostituirsi alle famiglie, alle scuole, alle parrocchie, agli oratori, alle società sportive. Né tocca allo Stato far rispettare le leggi.
Tocca alle persone rispettarle. Allo Stato spetta un solo compito: punire chi le víola. Fallisce, quando i delinquenti, a tutti noti, possono spacciare liberamente droga, intimidire e uccidere. Ma, vedi contraddizione, gli stessi che parlano di fallimento dello Stato, si allarmano se il governo punta a rafforzare tutti gli strumenti utili alla repressione del crimine.
È evidente che la repressione non è per nulla educativa. Non è il suo fine. La punizione severa e, si intende, proporzionata del crimine non ha quale compito primario quello di rieducare il criminale, ma quello del risarcimento morale, psicologico, sociale di chi è stato “offeso”.
Anche se gli effetti dell’azione criminale sono per lo più irreversibili – la punizione del colpevole non può restituire la vita a Giò Giò Cutolo – la repressione-punizione-condanna sutura una ferita collettiva.
Ma, soprattutto, riafferma il principio dell’amministrazione della giustizia come esercizio pubblico, controllato, trasparente. L’alternativa alla giustizia di Stato è “la giustizia di strada”, cioè il pestaggio, l’agguato, il linciaggio. È già accaduto!
Ma, ed è la seconda questione, a Caivano – si osserva – abbiamo a che fare con dei ragazzi, di cui alcuni minorenni.
Sono pienamente imputabili dei loro atti, nonostante scendano al di sotto dei 16 anni o dei 14 anni?
La risposta è sì. Certo, si deve constatare che uno che commette un crimine a 12 anni non è pienamente maturo sul piano morale – sennò non commetterebbe stupro – ma certamente dispone della consapevolezza intellettiva della criminalità del gesto.
È noto che i ragazzi oggi “maturano” prima, almeno nel senso che il periodo di latenza si è accorciato e che l’ingresso nella prima adolescenza è anticipato. Gli studiosi richiamano quali cause un’alimentazione più ricca, ma, soprattutto, la sovrabbondanza di stimolazioni sensoriali e intellettuali fornite dai nuovi prepotenti mezzi di comunicazione.
Conseguentemente si sta abbassando anche l’età della prima esperienza sessuale. Tale esperienza diviene traumatica e devastante, perché è un’esperienza senza amore dell’altro, perciò intrinsecamente violenta. L’uso dell’altro – consenziente o no – è spesso la conseguenza fatale. I ragazzi diventano “maggiorenni” assai prima che la legge lo preveda.
In un’intervista don Ciotti afferma che “Il malessere giovanile è uno straordinario indicatore di una disumanizzazione e mercificazione della vita. Non solo nelle gabbie materiali e mentali delle periferie, ma anche nei centri urbani. Oggi le emozioni dei ragazzi sono intercettate dal “mercato” e rese veicoli di profitto.
E il loro bisogno di considerazione si manifesta anche in forme perverse, violente. Non dobbiamo stupirci di comportamenti che rivelano un vuoto sentimentale e morale, una totale assenza di empatia.
In più, queste violenze vengono quasi sempre riprese da telefonini e poi diffuse nei canali social. Segni di un disperato bisogno di apparire, di gridare al mondo la propria esistenza, anche a costo di uccidere o violentare quella di altri”.
Massimo Recalcati utilizza un altro linguaggio: “Parcellizzazione molecolare del legame sociale, narcisismo, indifferenza, ipnosi collettiva senza alcun vertice apertamente totalitario, diffusione capillare dell’imperativo del godimento, isolamento crescente dei soggetti ridotti a monadi individuali, esclusione dell’Altro a vantaggio della creazione di comunità di simili…svuotamento nichilistico del senso della vita, eclissi del desiderio sommerso dalla marea montante di un godimento compulsivo dello Stesso, sentimento diffuso di inesistenza, vuoto, apatia, indifferenza, fatica di esistere”. Diagnosi perfette! E quindi?
Ne scaturiscono comunque sempre e solo due conseguenze, ambedue necessarie: che bisogna educare e che bisogna punire chi delinque.
Come punire? Il criminale va isolato dalla comunità e, contemporaneamente, deve risarcire la comunità ferita.
Solo con questo duplice movimento é possibile, forse, anche per il criminale avviare un itinerario di redenzione personale e di assunzione di responsabilità.
Da questo punto di vista, è fortemente dubitabile che l’istituzione di carceri per minorenni possa servire a tali fini.
Le carceri per adulti sono, oggi, degli inferni, luoghi dove migliaia di carcerati strisciano come larve in celle sovraffollate. Luoghi dove la persona viene scomposta e distrutta. Chi entra innocente – accade anche questo – ne esce predisposto al crimine.
Servono, dunque, non carceri, ma comunità di lavoro, di studio, di servizio civile.
Certo, se gli Istituti scolastici funzionassero a pieno tempo, dalla mattina alle otto alla sera alle venti come comunità di studio, di lavoro e di servizio civile… Ma devono fare i conti con… il contratto di lavoro dei bidelli – solo fino alle 14.00 – con quello degli insegnanti – 18 ore a settimana a scuola. E con strutture edilizie ottocentesche.
Sì, qui lo Stato, cioè i governi, ha fallito. Perché la Scuola non è stata pensata come luogo di educazione per la nostra gioventù.
Quanto ai genitori, qui c’è un solo rimedio: la responsabilità individuale.
Con un’avvertenza finale per tutti “i redentori” rousseauiani: gli esseri umani non sono naturalmente buoni, diventati cattivi per colpa della Società, dello Stato e della Storia. No, in ciascuno di noi stanno intrecciati con le virtù teologali e cardinali anche sette vizi capitali. L’elenco è troppo noto.