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Di nuovo a casa: se Casini torna a Palazzo Cenci-Bolognetti

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AGI – A volte ritornano: lo si dice tutte le volte che qualcuno ritorna. L’eterno ritorno dell’essere, in questo caso, ché per decenni la Dc è stata essenza e sussistenza, sostanza ed assistenza. L’unica anima vera e profonda del Paese, insomma, e tutti gli altri non s’offendano.

Oggi, poi, che si va esaurendo Colei che volle sostituirla, vale a dire Forza Italia (ma mai vi riuscì, diffidate delle imitazioni), ecco che non emerge il rimpianto, ma l’amarcord. Ed in politica l’amarcord può essere garanzia e preannuncio.

Non si sa mai: per l’appunto, a volte ritornano.

Così Pier Ferdinando Casini, che si dice punti al Quirinale perché i 50 li ha passati da gran pezzo, ma sui social è vispo come un ragazzino, vai che ti piazza la foto su Instagram, e non è una foto a caso. C’è lui, c’è il simbolo – quello scudo crociato che nel tempo è stato causa e oggetto di mille cause vinte perse e tutte finite in cassazione – c’è il balcone, attaccato per le griffe della balaustra a tutto il resto del palazzo.

Non il palazzo, ma il Palazzo. Palazzo Cenci-Bolognetti.

“Un sogno? Una nostalgia? Senz’altro un tuffo nel passato”, dice lui sornione, e con candore da Lupo Ezechiele precisa che passava di lì per caso e si è imbattuto in un set cinematografico, che ha riappiccicato al vecchio ferro battuto la vecchia gloria. Ma attenzione, l’astuto sa bene che un’Italia divisa e frastornata dai cento cazzotti del coronavirus la nostalgia è sogno e il sogno più produrre realtà rassicuranti. Non c’è niente di più tranquillizzante di quel passato, alla fin fine, quindi tuffiamoci. Hai visto mai.

Di ritorni a Palazzo Cenci-Bolognetti (lo edificò nel Settecento il Fuga, come anche un pezzo di Quirinale: quando si dice il caso) ve ne sono già stati almeno due, da quando la Dc si sciolse senza nemmeno dirsi addio nel 1994. Ci provò Gianni Fontana, ai tempi d’oro ministro dell’agricoltura, che nel 2017 aveva vinto una delle mille estenuanti battaglie sullo Scudo. Prese in affitto un paio di stanze a pianoterra, quelle dove all’epoca di De Mita stazionava la scorta. Non durò.

Immediatamente dopo annunciò il rientro Gianfranco Rotondi, ma efemeride era e efemeride restò.  

A voler fare le pizie, sembra quasi un ammonimento: non aprite più quella porta. Ma poi chissà, perché il passato non sempre passa. Ad ogni modo il Palazzo Cenci-Bolognetti ne ha tanto, di passato; quindi anche di futuro.

Zolfo e acquasantiere

Lo volle come sede De Gasperi in persona. Secondo gli agiografi lo preferì al dirimpettaio Palazzo Altieri (meno visibile ma di gran lunga più elegante) per una questione di sobrietà. Altri, meno legati alla Leggenda Aurea, gli hanno messo in bocca una frase meno diplomatica: “Di là c’è troppa massoneria”.

Non è precisato se si riferisse a Palazzo Altieri o al civico che sorge tra questo e il Cenci-Bolognetti. Al 47 di Piazza del Gesù, in effetti, la massoneria c’è: la Loggia degli Antichi Liberi Accettati Muratori di rito scozzese.

Per completare la descrizione della mappa: lungo il quarto marciapiede della piazza hanno dimora gli stessi gesuiti nel loro splendore manieristico, e molto vento.

Dice una voce molto diffusa a Roma (è finita anche su Wikipedia, a forza di girare) che un giorno il diavolo e il vento camminassero insieme, sui gradini del Gesù costruito dal Vignola. Ma il diavolo disse al vento: “Attendi un attimo, entro ché devo vedere uno”.

Entrò in chiesa. Da allora il vento è lì fuori che ancora l’aspetta. Hahahahaha, come si fa oggi su whatsapp.

Palazzo Cenci-Bolognetti fu per cinquant’anni esatti il centro del potere, essendo risaputo che all’epoca un segretario della Dc contava come quattro presidenti del consiglio tutti insieme. Inevitabile ritenere che ne abbia viste di tutti i colori. Ma quelle sono mura abituate a parlar poco, e pur se ne vedevano di tutti i colori loro restavano di un begiolino smorto. Qualcosa tra il terra di siena e lo scarico della macchina che, impastati dalla pioggia, rappresentavano la cifra comune delle facciate dei palazzi romani, prima che riprendessero a dar loro le tonalità settecentesche.

Si entrava e a sinistra c’era il gabbiotto del portiere. Alluminio ottonato su vetro: tra mura rococò e rilievi di sarcofagi romani. Salivi una prima mezza rampa di scale di marmo carrarino e ti trovavi a una finestra sul cortile. Di sotto le auto di servizio (niente di vistoso) e un fico stretto e lungo come un’acciuga che – come il suo collega di Brooklyn nel romanzo di Betty Smith –  lottava anima e corpo per raggiungere la luce.

Altra mezza rampa ed ecco il piano nobile: a sinistra le stanze della segreteria, a destra il salone della Direzione Nazionale, con tanto di busto arcuato di Luigi Sturzo. Dietro l’ufficio stampa, un altro paio di camere e, prosaicamente, il gabinetto.

A voler prendere un appuntamento, e tutti lo facevano, non ci si illuda, si chiamava il centralino. Rispondeva una voce femminile, strascicata e romanesca: “Democraziaaaa” ti accoglieva indolente e pigra, evitando la fatica di pronunciare la seconda metà del nome del Partito dante causa. In realtà era un segnale, una profezia, una dimostrazione. Un’Italia contenta di sedersi al caldo di un posto umile ma fisso, dopo tanto sgobbare fino all’epoca del Boom, accettava lo statu quo democratico e al tempo stesso ne sterilizzava le rivendicazioni ideali e culturali. E ne cancellava l’identità cui invece un De Gasperi teneva molto, per non dire di La Pira.

La secolarizzazione, in Italia, è iniziata con la centralinista di Palazzo Cenci-Bolognetti.

Striscia la scissione

Teatro di tutte le vicende della Prima Repubblica (Casini ancora adesso è immortalato deputato ventisettenne seduto accanto a Forlani, sotto lo Sturzo arcuato), il Palazzo divenne esso stesso La Vicenda all’inizio della Seconda. Nelle sue sale si era consumata la scissione del Ccd di Casini (ancora lui) Mastella (nove anni nelle stanze dell’ufficio stampa) e Follini. Ma loro, le stanze, avevano resistito: prima fedeli alla Democrazia Cristiana, poi alla creatura che Martinazzoli volle al suo posto, cioè il Ppi.

Il Ppi, per l’appunto, prese possesso degli uffici e subentrò nei contratti d’affitto. Li avrebbe onorati, con dignità, per anni. Quello che invece nel frattempo non avrebbe resistito sarebbe stato il Ppi medesimo.

Il primo segretario, che poi era lo stesso Martinazzoli liquidatore dello Scudo Crociato che pure resistette ancora un po’ al balcone del Palazzo, si stufò presto. Non prima però di aver fatto entrare in segreteria, come uno dei suoi collaboratori, Rocco Buttiglione, professore stimato e stimato dai più – si vera est fama – come vicino anche a Papa Giovanni Paolo II. Parlava e parla il polacco, in effetti, e la sua era la Polonia in cui la Chiesa faceva naufragare senza una lacrima la simil-Democrazia Cristiana polacca tentata da Tadeusz Mazowiecki. Ma non allarghiamoci troppo.

Buttiglione divenne a sua volta segretario del Ppi vincendo un regolare congresso e subito si buttò verso quello che la Chiesa ed egli stesso ritenevano essere l’erede del centro, vale a dire Silvio Berlusconi. La pancia del partito invece faceva sorda resistenza, avvertendo la manovra. Ci pensò, alla fine, Striscia la Notizia.

Un pomeriggio Buttiglione era con Tajani, in uno studio Fininvest, per registrare un talk show. Non si sa bene il perché, ma i due si misero a ridacchiare dandosi di gomito. Più o meno il primo disse al secondo: “Ora ve li porto tutti da voi”. Striscia la Notizia mise in onda quello che doveva restare un fuori onda. Apriti cielo: Buttiglione beccato come uno studente che sbircia all’esame di polacco, venne messo in minoranza e reagì come uno scienziato cui contestano il Nobel.  Insomma, spaccò tutto.

Se la maggioranza del Partito prende possesso della sua stanza di segretario nel Palazzo Cenci-Bolognetti, lui si barrica al piano di sopra e chiude a chiave. Sporgendosi dalle finestre i suoi sostenitori ne dicono e ne fanno di tutti i colori a quelli del piano di sotto, volano insulti e pure qualche sputo. Quelli di sotto tentano anche l’assalto, una sera, a quelli del piano di sopra, ma finiscono respinti. La notte nessuno abbandona le posizioni: non sai chi ti ritrovi al tuo posto, domattina. L’ascensore di fronte al gabbiotto del portiere, un metro per un metro, diventa l’unico mezzo di trasporto ammesso: nessuno vuole incrociare gli altri per le scale.

Chi ci gode è Berlusconi: non tanti per i voti – in fondo pochi – che gli porta in dote Buttiglione. Il suo successo è semmai nell’aver spaccato a metà il partito erede dell’unitario democristiano, del metodo dell’intesa a tutti i costi perché la politica è uscire insieme dai problemi, è evitare le fratture. Lui la pensa al contrario, e nel momento in cui va in frantumi il Ppi capisce di aver vinto non tanto politicamente quanto culturalmente. L’Italia non è più la Dc. Il Palazzo è stato espugnato, anche il simbolo prima o poi cadrà dal balcone. La Dc è morta. Per sempre, la si confini all’amarcord.

Per la cronaca: Buttiglione alla fine molla, fittavoli dei Cenci-Bolognetti restano con aria da vincitori quelli del Ppi che non vogliono stare con Berlusconi. Segretario Franco Marini, vicesegretari due giovani promesse: Enrico Letta e Dario Franceschini.

Marini, che la sa lunga, li fa crescere, quei due, ma ci sta attento, e mentre si tiene la stanza del segretario confina gli scalpitanti virgulti dall’altra parte del primo piano, dove prima c’era l’ufficio stampa e anche qualcos’altro.

Qualcosa di utile, essenziale, irrinunciabile e vitale. Umile. Alle corte: il gabinetto. Ragazzi, state al vostro posto. E fu l’ultima lezione che la Dc dette alle sue leve. Anzi, gliela dette Palazzo Cenci-Bolognetti.

Source: agi


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