di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo
Il documento di economia e finanza serve per aggiornare i conti pubblici e principalmente per scrivere i numeri del quadro programmatico, cioè di quello che il governo vuol finanziare nella legge di bilancio. Se non scrivi i numeri del tuo programma è per tenerti le mani libere: se va tutto bene, potrai chiedere all’UE di fare altri miliardi a debito per la prossima legge di bilancio, se invece succede qualche cosa sui mercati internazionali dovrai fare una manovra correttiva. Comunque vada, avendo evitato di scrivere un numero nero su bianco, il governo può promettere di mantenere gli sgravi di contributi e tasse fino dopo le elezioni europee. In effetti è la scelta ideale per un governo alla vigilia di un appuntamento elettorale. E poi il governo dice che la colpa di queste difficoltà sono del superbonus dei governi del passato. Se le responsabilità sono politiche, però, la spesa di gran lunga maggiore sul superbonus è avvenuta nel 2023 mentre il governo Meloni diceva di averlo finalmente bloccato. D’altra parte non si può accettare che tutta la colpa degli eccessi del superbonus sia dei tecnici della ragioneria perché le responsabilità alla fine sono sempre dei governi e dei parlamenti che decidono.
Anche il punto di non scrivere il “programmatico” è molto politico eppure ci sono delle giustificazioni tecniche: si è già fatto in passato (ma da governi che erano già dimissionari e quindi non legittimati) e poi siamo in un anno di sospensione delle regole europee di bilancio e quindi si attendono “istruzioni” sull’applicazione delle nuove regole che arriveranno a settembre. In realtà sappiamo già quali sono le regole che anche l’Italia ha approvato (il nuovo Patto di Stabilità). Per capire se davvero la giustificazione tiene, bisognerebbe vedere cosa fanno gli altri paesi: tutti i governi sono sotto elezioni, se nessuno scrive il programmatico allora va bene, ma se alla fine siamo i soli a non scriverlo o siamo in pochi, allora potremmo essere i soliti italiani.
A pensar male si potrebbe dire che lo scopo di tenersi le mani libere adesso è di cercare di ottenere più debito e più spesa a settembre puntando tutto sul nuovo equilibrio politico post elezioni europee. Del resto che il governo punti tutto sul cambio della commissione europea è chiaro da tempo, e anche ieri il ministro dell’economia ha insistito che il la data di termine del PNRR la deciderà la prossima commissione e non questa. L’anno scorso questa strategia ha funzionato ma quali sono i rischi per il prossimo anno?
L’anno scorso, nel def di aprile, il governo si era legato le mani anzitempo (a mio avviso fu un errore) per la legge di bilancio del 2024 e degli anni a venire, promettendo (e in parte attuando subito) una riduzione di contributi per 11 miliardi. Quando arrivò settembre non aveva più soldi per fare la legge di bilancio e infatti per la prima volta la legge di bilancio si chiuse con zero soldi alle imprese. Era tutto combinato, e in quel caso la strategia di puntare tutto sull’Europa funzionò, perché, in virtù del fatto che la commissione è in scadenza e tutti hanno interesse a che il PNRR italiano vada bene, pochi mesi dopo si tagliò il PNRR dei comuni per far spazio a transizione 5.0 per le imprese. Quelle spese in tempi normali sarebbero state finanziate in legge di bilancio perché transizione 5.0 ha un profilo di costo spalmato negli anni, che è perfetto per la legge di bilancio, invece si è messo a carico del PNRR che ha un profilo di costo concentrato nei prossimi due anni.
E va bene, la politica è sempre sopra di tutto, ma, il prossimo anno, se dovesse andare male la scommessa e il governo italiano dovesse contare meno di prima nella costruzione della maggioranza europea, a chi toccherebbe pagare il conto?
Se non dovesse ottenere dalla UE di fare più defict e non volesse aumentare le imposte o ridurre altre spese, il governo dovrebbe rinunciare a rifinanziare la decontribuzione per i lavoratori a basso reddito, la riforma dell’irpef, la detassazione dei premi di produttività, che equivalgono a più di 15 miliardi. Tutti benefici finanziati solo fino a fine anno e per la maggior parte a favore dei lavoratori dipendenti che sono quelli più colpiti in questi anni, non solo dall’inflazione ma anche dalle imposte che crescono più dei redditi per via del fiscal drag.
A fronte di un’inflazione nel 2023 del 5,5% e di una crescita dei redditi da lavoro dipendente che è meno dell’inflazione (4,4%), il gettito irpef (MEF) da lavoro dipendente è aumentato dell’ 8,5%. Questo fenomeno, chiamato fiscal drag, è causato alla progressività dell’IRPEF che fa aumentare le aliquote medie dei contribuenti erodendo parte dell’incremento di reddito che avrebbe permesso di recuperare l’inflazione. A questo dovrebbe pensare il governo, in modo che i tanto attesi rinnovi contrattuali siano davvero utili ad aumentare il potere d’acquisto e non siano mangiati dalle tasse, non a scommettere sulla generosità della nuova Commissione.
liberta’ eguale