A due settimane da Sanremo è ora di dare un’occhiata ai dischi dei cantanti in gara usciti dopo la fine del festival, a partire proprio dal disco generazionale dei Maneskin, il repack di quella perla di album di Colapesce e Dimartino, li amate? Benvenuti nel nostro mondo. Madame e Fulminacci propongono due dischi eccezionali, specie se pensiamo a due artisti così giovani. Male Ermal Meta, Achille Lauro e Gio Evan, ma non è che ci aspettassimo molti di più; decisamente più interessanti i dischi di Ghemon e Aiello. E poi tutte le nostre chicche provenienti dal sottobosco musicale: meraviglioso il nuovo singolo di Glomarì.
“Teatro d’ira – Vol. 1”: Rock o non rock? Questo è il dilemma; ma solo per chi si appassiona alle etichette, alle definizioni, ad incasellare l’incasellabile, la musica, che resta pur sempre musica, prima ancora che specificatamente musica, per intenderci. A noi il ritmo sembra rock, che sia poi evidentemente bagnato dalla beata ingenuità di una band in cui il più grande è nato nel ’99, ok, ci sta, si sente, si insegue quell’orecchiabilità che strizza l’occhio al pop più commerciale, ma l’effetto, attenzione, non è quello del camuffamento, tipo “Facciamo il pop ma lo vestiamo da rock in modo tale da giustificare un certo atteggiamento”.
La sensazione è piuttosto quella di quattro giovanissimi, ma veramente issimi, che al contrario di loro coetanei, invece di prendere la strada facile della musica al computer, a metà strada tra Spotify e Pornhub, si riuniscono in una sala prove e suonano con degli strumenti in mano, si, scimmiottando un po’ i loro miti, se vogliamo metterla giù dura, oppure potremmo anche dire “fisiologicamente influenzati”, ma nel frattempo, e andiamo al sodo, concentrandosi sulla costruzione di uno stile preciso, centrato, che vuole essere duro ma non riesce a non essere estremamente assimilabile, cosa che li aiuta a far venir fuori in maniera corretta non solo il messaggio ma anche la loro urgenza nel comunicare quel messaggio.
Ciò non li porta ad essere i Led Zeppelin, ma nemmeno possono finire crocifissi in sala mensa con la colpa di essere indiscutibilmente i più fighi della scena musicale italiana. Hanno gli anni che hanno, come la cagna maledetta di Boris, e fanno quello che gli pare, e pare si divertano un mondo a farlo, le canzoni si fanno ascoltare, tutte, senza annoiare, mai, e tanto basta.
“I mortali²”: Il successo stratosferico di “Musica leggerissima”, brano che nessuno pare abbia capito, che viene scritto per combattere i tormentoni e finisce per diventare a sua volta tormentone, non poteva non richiamare il repack de “I mortali”, il disco uscito lo scorso anno per festeggiare una profonda amicizia nonché dieci anni di carriera di due dei maggiori interpreti della rivoluzione indie in salsa siciliana.
Un vero e proprio regalo, l’incisione di chicche concesse solo a chi ha avuto la fortuna (pochi, considerato il periodo) di aver potuto assistere al concerto dei due, la ripresa di canzoni del loro repertorio solista come “Non siamo gli alberi”, “Totale” e “I calendari”, e poi Colapesce che canta Dimartino (“Amore sociale”) e Dimartino che canta Colapesce (“Decadenza e panna”). E poi naturalmente la loro versione di “Povera patria” di Franco Battiato, cantata sul palco del Teatro Ariston durante la serata dedicata alle cover e non capita, vera delusione dell’esperienza sanremese, specie per due artisti siciliani, forse ancor più dell’esclusione in extremis dalla finalissima a tre. Il disco resta una vera e propria goduria per le orecchie, oggi si, al quadrato.
“Madame”: Un disco rivoluzionario, come solo il disco di una ragazza di 19 anni può permettersi di essere. Mettendo un attimo da parte la partecipazione al Festival con “Voce”, brano splendido e miglior testo della kermesse, e la tac al personaggio che ci stanno proponendo in tutte le salse, riportando a galla inclinazioni sessuali e bullismo scolastico, cose che preferiremmo, se ne ha voglia, ci cantasse lei, se non ne ha voglia va bene uguale; il disco di esordio di Madame è stupefacente.
Perché stupefacente è la capacità di questa ragazza di portare a sé qualsiasi cosa canti ma, soprattutto, qualsiasi artista canti con lei; c’era riuscita addirittura con Fabri Fibra, che potrebbe esserle padre anagraficamente e ormai nonno artisticamente, e continua a riuscirci con chiunque gli capiti a tiro, da Rkomi e Carl Brave ai Pinguini Tattici Nucleari, da Gue Pequeno a Ernia, da Villabanks a Gaia, fino a “Tutti muoiono”, in duetto con BLANCO, l’unico della scena più piccolo di lei.
Tutti modellati, costretti (felicemente, è ovvio) a tenere il suo passo, a mantenere il suo mood. Stupefacenti sono i testi, stupefacenti sono le intuizioni, stupefacente è la capacità di spalancare finestre su un mondo davvero troppo grande per una ragazza che lo ha vissuto ancora per così poco tempo. Wow.
“Tribù urbana”: Forse sarebbe anche ingiusto aspettarsi da un disco di Ermal Meta qualcosa di diverso da un disco di Ermal Meta. È un cantautorato privo di particolari spunti, niente che non abbiamo già sentito mille altre volte in maniera anche decisamente più illuminata, roba da ragazzini oseremmo dire, senza che nessuno si offenda, pop destinato ad incantare chi si accontenta o non ha i mezzi per percepire niente di più complesso.
I brani scorrono via lisci come il vino della casa, lui prova anche a proporre qualcosa che si distacchi dal quel pop sempliciotto che gli riesce così bene, ma l’effetto alle volte, senza entrare nello specifico per educazione, è quasi disastroso; concludi l’ascolto e l’unico brano che ti è rimasto in testa è quella “Un milione di cose da dirti” portata a Sanremo e che probabilmente, a dispetto della nostra voglia di scoprire qualcosa di nuovo, che quella vetrina serva davvero a far emergere artisti un po’ più ricercati del nostro Meta, se avesse vinto il Festivàl nessuno avrebbe potuto dire niente.
Ermal Meta è un buon artista, uno che sa fare il suo mestiere, sa scrivere canzoni che hanno la loro ragion d’essere e le sa pure cantare a dovere, quello che sfugge è questa fascinazione di massa, questo legame indissolubile con un pubblico che lo venera come pochi artisti sono venerati nel panorama italiano. Capiamo la necessità per una nuova generazione di non vivere di miti passati all’altro mondo, di respirare le proprie parole, le proprie storie, i sentimenti che oggi popolano il mondo…ci sta. Ok. Ma stiamo molto calmi nel fabbricare castelli di sabbia, nel permettere che la semplicità del pop 2000 diventi legge.
“Tante care cose”: Se “Santa Marinella”, uno dei miglior brani presentati in gara a Sanremo, e per migliori intendiamo forse il migliore in assoluto, non vi è bastato, Fulminacci ci regala un album strepitoso. La verità, nuda e cruda, tanto semplice quanto incredibile, è che il giovanissimo cantautore romano non sbaglia mai un pezzo, è l’unico vero giovane erede della più alta tradizione da chansonnier che la nostra musica abbia sfornato negli ultimi 20 anni e “Tante care cose” è, a sua volta, un disco strepitoso.
Un quadro di Pollock, colori e storie per tutti, una voce per tutti quei ragazzi lì fuori che guardano alla vita con poesia, non per forza con la cattiveria e il machismo tipico dei ventenni di oggi, come se ogni cosa fuori dalla finestra rappresenti una minaccia da distruggere. C’è anche chi osserva silente, chi decide di raccontarlo il mondo, senza accaparrarselo, così da far emergerne il succo vitale, con ironia anche, con delicatezza, con buone maniere, con un pensiero coerente e rarefatto. Infatti nelle canzoni di Fulminacci, ogni singola di questo disco, si sente pulsare la vita, ci siamo dentro noi, le nostre piccole e misere avventure, che diventano grandi quando vengono declinate in grandi canzoni, e “Tante care cose” di questo genere di canzoni ne è pieno fino all’orlo.
“Marilù”: Potremmo dilettarci a sciorinare una lista quasi infinita di brani dedicati a donne specifiche, capolavori inarrivabili di umanità ed empatia, donne che diventano personaggi fondamentali, che entrano a far parte del nostro immaginario storico e culturale, manifesti respiranti di una magia unica e allo stesso tempo quasi politica, cantare una persona per raccontarne un milione. Ecco, “Marilù” non farebbe parte di quella lista.
“E vissero feriti e contenti”: Ghemon è certamente uno dei più raffinati cantautori della scena italiana, i suoi brani, compresi soprattutto gli ultimi, riscaldano letteralmente una casa, vibrano leggeri e incisivi. In “E vissero feriti e contenti”, secondo album in meno di un anno, Ghemon prosegue su questa coraggiosa strada dell’R&B proponendo altri 15 pezzi che sbrilluccicano per innovazione, perlomeno da queste parti, e delicatezza.
C’è chi urla, si sbraccia, si sgola, ci sfonda i timpani, solo per provare a dire qualcosa; e alla fine, confusi da tale chiasso barocco, non ci capiamo alcunché. E poi c’è chi le cose te le dice, te le spiega, con calma, trovando il modo per farsi ascoltare e per essere anche estremamente piacevole. Ecco.
;
“Meridionale”: Nonostante il fallimento, eccessivo, al Festival di Sanremo, Aiello è sicuramente un artista capace di proporre uno stile assolutamente unico in un panorama, specie quello indie dal quale, piuttosto velocemente, è passato lui, in cui invece di correre in avanti ci si insegue per assomigliarsi il più possibile. Non c’è un cantautore in Italia che dice quello che dice Aiello e nemmeno come lo dice Aiello.
Certo, forse buttarla troppo sulla fisicità, sul suo essere un bel ragazzo, su quelle movenze che ricordano il primo Ricky Martin, non è una mossa geniale, è qualcosa che toglie più di aggiungere, si potrebbe capire se uno avesse per le mani i Ragazzi Italiani, ma le canzoni di Aiello non sono niente male, si fanno ascoltare e colpiscono se gli si da la possibilità di farsi colpire.
“Meridionale” propone un pop d’autore che non stanca, anzi se si esclude il tormentone “Vienimi (a ballare)”, in cui, perlomeno a noi, pare evidente lo sforzo di sterzare verso una determinata direzione, le canzoni sono quasi tutte azzeccate, compresa quella “Ora”, che non meritava quel penultimo posto al festival.
“Mareducato”: Una sequela insopportabile di poetica da quattro soldi che viene inaugurata da un monologo di un minuto che straborda di un ego talmente dopato che basterebbe per quattro vite; in cui ci ripete, tra le altre cose, che non ha televisione a casa, come se fosse un merito. Ecco, durante la settimana di un festival miseramente perduto a causa della pochezza della sua “Arnica”, lo ha ripetuto fino allo sfinimento, in ogni singola intervista rintracciabile in rete, una cosa detta anche a chi non glielo chiedeva: “Io non ho televisione”; il che alla fine fa l’effetto di chi sta in una stanza con gli amici e continua a giurare e spergiurare che la puzza invereconda che appesta l’aria non è roba sua.
L’album in sé è di una noia mortale, nella prima parte, quella dedicata alle canzoni, le parole sono messe giù con un senso, questo si, ma senza la minima onestà, solo la voglia di raccontarsi, svuotarsi per poi rimangiarsi, una voglia matta ed insaziabile di se stesso. La seconda invece, che evidentemente qualcuno ha ritenuto necessaria, forse proprio in qualità del titolo di “poeta di Instagram” (ehi, non ti piace la tv ma vai matto per Instagram?), non è altro che un festival di aforismi sciorinati alla rinfusa, come scrollare la pagina Facebook dei Baci Perugina, ma trovandoci molti meno spunti intellettuali. Ancora una gran noia, ma al quadrato.
“Ti raggiungerò”: Brano di rara bruttezza, in un mondo giusto meriterebbe un reato ad hoc.
“Se mi pieghi non mi spezzi”: L’unico modo per sopravvivere al tritacarne dei talent è fare buona musica, cmqmartina fa buona musica, per questo si salverà, per questo la risentiremo spesso e, speriamo, sempre in forma come in questo pezzo, che ti fa salire fame della sua inventiva, forse la più interessante in assoluto di X-Factor 2020.
“Come se”: Il cantautore torinese si conferma tra i più interessanti della scena indie, questa “Come se” è un pezzo nostalgico moderno, e parliamo di una nostalgia che colpisce duramente, dalla narrazione quasi struggente in totale sbilanciamento rispetto ad un ritmo quasi leggero che ci trasporta in una realtà distopica, un labirinto di ricordi dal quale, quasi quasi, non abbiamo nemmeno così tanta voglia di uscire. Bravo.
“Sono io”: Il sottotitolo dovrebbe essere “…vi ricordate?”. Si capisce perfettamente quello che il Wrongonyou che canta in italiano vuole fare, il problema è che non ci riesce. I pezzi mancano di profondità, la lingua italiana lo fa restare in mutande con i contenuti in mano, e non sono sto granché di contenuti. Le atmosfere della bellissima “Killer”, il brano grazie al quale siamo venuti a conoscenza della sua esistenza e che per un quarto d’ora ci ha spinto a credere di aver trovato uno con numeri eccezionali, si sono tristemente arenati prima in “Milano parla piano” e adesso in questo “Sono io”. Non ci ritroviamo un briciolo di sincerità, solo la volontà di risultare cool, che poi è la cosa meno cool che possa esistere.
“Fernweh”: Si clicca play e la canzone inizia a vorticare sopra le nostre teste, leggera e incisiva, eterea ed unica, immagini e parole che ci appaiono davanti agli occhi chiare, quasi quattro minuti di pausa del casino che abbiamo in testa. Consigliatissima.
“My Future”: E se dobbiamo riprendere in mano gli anni ’80 facciamolo davvero e con gusto. Il debutto della giovane romana non potrebbe essere più felice. Il pezzo funziona, suona come una hit da artista pop internazionale consumata, di chi sa già perfettamente cosa fare, dove andare, come arrivarci. Canta con una precisione chirurgica, pulita, ma senza scalfire un minimo una personalità dirompente. Da sparare a tutto volume.
Source: agi