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Da Luigi Berlinguer a Renzi: com’è cambiata la Scuola italiana

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L’Autonomia scolastica è stata salutata da tutti come una svolta storica, per una maggiore democrazia nella scuola italiana, basata su parole come inclusione, libertà dai programmi prestabiliti dal governo centrale, dipartimento delle discipline, esperienze parallele e complementari al curricolo scolastico. Ma nella pratica quotidiana tutto questo sembra molto lontano dalle vere esigenze di studenti e docenti

di Anna La Mattina

Le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti”. Così scriveva il premio Nobel per l’economia Milton Friedman nel 1955, immaginando l’equazione concorrenza-efficienza che, alla prova dei fatti, così come molti altri assunti economici, si è rivelata totalmente fallimentare e non solo nel campo dell’istruzione.

La Scuola dell’Autonomia di Luigi Berlinguer* e la Buona scuola** di Matteo Renzi: storia di una dismissione progressiva della scuola italiana e del tentativo di rivestire il “morto” con abiti eleganti, per farlo sembrare vivo, almeno nel giorno del suo funerale.

E sì, perché la Buona Scuola di Renzi consegna definitivamente la scuola nelle pastoie burocratiche che la legge Bassanini degli anni Novanta, con la riforma della Pubblica Amministrazione, voleva proprio evitare.

L’Autonomia scolastica è stata salutata da tutti come una svolta storica, per una maggiore democrazia nella scuola italiana: parole come inclusione, libertà dai programmi prestabiliti dal governo centrale, dipartimento delle discipline, esperienze parallele e complementari al curricolo scolastico e acronimi come PTOF, PDM, RAV, PEI, PDP, BES E DSA, INVALSI***, la fecero da padroni; ma nella pratica quotidiana tutto questo sembra molto lontano dalle vere esigenze delle persone, sia esse studenti che docenti. Un insieme senza regole chiare, precise, che vive quasi di vita propria, schiacciando a terra ogni buona volontà di riuscire ad aiutare chi ha più bisogno, oppure impedendo di fatto di esprimere tutta la professionalità dell’arte dell’insegnare (lasciare il segno dentro), che quest’arte si esprima liberamente, con quella dose di imprevedibilità che fa nascere l’atto creativo che assicura il successo formativo degli alunni, specie i più bisognosi d’attenzione.

Spesso gli istituti italiani non dispongono nemmeno di strutture adeguate, per accogliere la pluralità delle esperienze e delle diversità; invece si riempiono di carte i cassetti delle segreterie e le carpette degli insegnanti referenti e coordinatori: tutte attività che tolgono, di fatto, tempo alla relazione educativa e all’insegnamento vero e proprio.

Nel frattempo nessuno (tranne pochi), si rende conto che il linguaggio dell’economia pian piano è entrato a far parte della scuola: parole come crediti e debiti formativi sono o non sono termini di un linguaggio prettamente economico-finanziario? Le aziende finiscono per decidere le sorti della scuola, attraverso associazioni e/o imprese private, che ne stabiliscono le linee guida e gli indirizzi didattici in base alle proprie esigenze formative e non alle esigenze formative dell’individuo, della persona umana, prima di ogni altra cosa!

La scuola subisce il “decentramento”, l’Autonomia impone di demandare agli USR (Uffici scolastici regionali), il compito di sorvegliare sull’andamento dell’applicazione delle nuove leggi e sulla base di ciò, stabilire in che misura e come devolvere il denaro che spetta ad ogni istituto, quantificato in base al numero degli iscritti. Ecco che si innesca il meccanismo della caccia agli studenti/clienti.

In forza dell’autonomia scolastica i presidi divengono Dirigenti Scolastici (D.S.), per ogni amministrazione locale di ciascuna scuola, vi è un Dirigente amministrativo che, di concerto con la/il Dirigente scolastico, dovrà far quadrare i conti della scuola: le entrate provenienti dai fondi di istituto (i FIS), ma anche i PON, che tanto fruttano sul piano delle percentuali riconosciute alla dirigenza nel suo complesso: percentuali a scalare, a partire dal 9% al 3% riconosciute alla dirigenza scolastica nel suo complesso, a partire dai D.S., seguono i DGSA, per finire alle vicepresidenze (i dati sono consultabili in qualsiasi documento di contrattazione sindacale, interna a qualunque istituto scolastico nel territorio nazionale) una scuola a parole egualitaria, democratica, superspecializzata, ma vuota di contenuti nei fatti e foriera di disparità, con la maggior parte degli insegnanti, malpagati e con stipendi sicuramente non da personale laureato e plurispecializzato.

In questo “tipo” di scuola, agli insegnanti è richiesta una formazione continua e costante, per obbligo di legge, fuori da ogni computo stipendiale aggiuntivo!

I docenti che rimangono fuori dalla spartizione della “torta” dei finanziamenti attraverso i PON/FSE per l’istruzione, vedono consegnare nelle mani di pochi, un gruzzoletto che aumenta l’esiguo stipendio annuo. Gli “esclusi” non hanno alcuna speranza di un adeguamento economico, che possa valorizzare la loro professionalità; ma è fin troppo chiaro che di questa professionalità non interessa a nessuno: per compilare schede e svolgere lavoro burocratico, basterebbe un impiegato d’ordine!

Lo stipendio dei docenti italiani è il più basso d’Europa, si attesta attorno ai 1300 euro, nella primaria ed nella scuola dell’infanzia, con una forchetta tra i 1400/1500 euro tra la scuola secondaria di primo grado (scuola media) e la secondaria di secondo grado (scuola superiore), per un neoassunto e i 1900 euro di un docente con 35 anni di servizio.

Gli insegnati che non hanno ottenuto incarichi di vario tipo all’interno dell’istituzione scolastica per cui lavorano (funzioni strumentali, coordinamenti vari, Consiglio di Classe/Dipartimento disciplinare, responsabilità di laboratori e palestra, ecc..) e neppure alcun progetto approvato, si devono accontentare dello stipendio di cui sopra.

A questo punto vien da sé la riflessione sul “sistema” economico della scuola, che delinea un “sistema di potere” al suo interno. Inoltre, i progetti approvati si devono pur svolgere. Sì, ma quando? Di mattina naturalmente, durante le ore curricolari, nelle ore “libere” del docente titolare del progetto, poco importa se si interrompono le lezioni curricolari, impedendo la continuità degli insegnamenti che lasciando… ai posteri la cultura dei popoli.

E siccome i progetti non sono pochi, si può ben comprendere come una lezione di grammatica o di qualsivoglia materia, svolta oggi, vedrà il suo seguito dopo un mese, senza esagerazione, purtroppo! Ecco perché si è perso irrimediabilmente l’uso della lingua italiana e della conoscenza dei saperi. Ma questi non sono linguaggi graditi alla scuola dell’era del capitalismo liberista, sprezzante delle regole che non hanno alcun rispetto dell’essere umano, sia esso studente o lavoratore, specialmente delle future generazioni.

Legenda:

* La legge che introdusse l’Autonomia scolastica è la n. 59/1999, detta anche “Legge Berlinguer”, riforma che prese il nome dal ministro della Pubblica istruzione nel governo Prodi.

** La legge che introdusse la Buona Scuola del governo presieduto da Matteo Renzi è la 107/2015.

*** Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione. L’INVALSI è un sistema di ricerca dotato di personalità giuridica di diritto pubblico; è soggetto alla vigilanza del Ministero dell’Istruzione. La valutazione delle priorità tecno-scientifiche è riservata all’Istituto. L’INVALSI fu creato nel 1999, su proposta del ministro Luigi Berlinguer, a norma della legge 59/1997, come trasformazione del Centro europeo dell’educazione (CEDE), creato nel 1974.