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Da avvocato a premier e leader, l'ascesa di Conte al vertice M5s

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AGI – “Sarò l’avvocato difensore del popolo italiano”. Da quel 23 maggio del 2018, quando dal Quirinale si presentò agli italiani con questa frase divenuta ormai famosa, Giuseppe Conte di strada ne ha fatta molta. Fino ad arrivare, venerdì, ad essere ufficialmente incoronato leader di M5s, dopo il plebiscito sul nuovo Statuto incassato martedì sera. Un cursus honorum politico iniziato a sorpresa dal vertice della piramide, a dispetto di un profilo noto solo agli addetti ai lavori o agli accademici del Diritto privato, ma che lo ha visto recuperare a tappe forzate il gap iniziale di esperienza, complici vicende politiche dense e soprattutto lo scoppio della pandemia. Un cammino iniziato durante la campagna elettorale per le elezioni del 2018, quando Conte, all’epoca stimato professore di diritto pubblico a Firenze, allievo del suo mentore Guido Alpa, venne designato da Luigi Di Maio come ministro della Pubblica Amministrazione in un ipotetico governo a trazione pentastellata. Nel corso della presentazione della squadra di governo del movimento, avvenuta all’Eur a febbraio, Conte spiccò immediatamente per capacità dialettiche e per empatia col pubblico, guadagnandosi la stima dei militanti grillini, al pari dei big. Nessuno, però, pensava che di lì a qualche settimana, nel pieno delle snervanti trattative per la formazione del governo gialloverde, il suo nome sarebbe tornato prepotentemente in ballo come punto di caduta tra Lega e M5s sul nome del premier.
Ma che si sarebbe trattato di una presidenza tormentata, lo si intuì dal fatto che, ancora prima di assumere il mandato, Conte dovette rinunciare una prima volta all’incarico a causa del veto del Capo dello Stato Sergio Mattarella sul nome di Paolo Savona a ministro dell’Economia, prima di essere richiamato al Colle, una volta risolto il problema. E sembrano passate delle ere politiche, rivedendo le immagini di un Conte impacciato nell’emiciclo di Montecitorio, al momento di pronunciare il discorso programmatico per incassare le fiducia il 7 giugno del 2018, tanto da chiedere il permesso al suo vice Luigi di Maio, seduto accanto a lui, di poter dire una frase. L’esperienza tormentata di quell’esecutivo si concluderà l’estate successiva, in pieno agosto, in seguito alla crisi innescata da Matteo Salvini, con una location simile ma con una scena totalmente differente da quella appena citata. Una scena simbolica nel testimoniare i progressi conseguiti in termini di leadership dall’avvocato nato in provincia di Foggia ma trasferitosi presto a Roma: la mano sulla spalla di Salvini nell’aula del Senato il 20 agosto del 2019 e il “Caro Matteo” che sancisce quasi beffardamente il fallimento del tentativo del leader leghista di andare alle elezioni anticipate e il cambio di maggioranza, con l’avvio del governo giallorosso composto da M5s, Pd, Leu e Italia Viva. Una vittoria politica cha ha del clamoroso, che proietta Conte nel ristretto club di presidenti del Consiglio che hanno presieduto più di un esecutivo. Ma c’è di più, l’essere riuscito a essere di nuovo il garante di un accordo di maggioranza e a prevalere su Salvini, comincia a costruire attorno Conte un consenso politico personale e a far emergere in seno al Movimento la cosiddetta ala governista. Non guasta certo alla sua causa, un clamoroso (e maldestro) endorsement del presidente Usa Donald Trump, che in un suo tweet esprime l’auspicio che il suo amico “Giuseppi” resti al suo posto a Palazzo Chigi. Al di là delle ironie sulla gaffe trumpiana, cominciano a nascere i “contiani” e contestualmente si sviluppano dentro M5s conflitti che passeranno attraverso defezioni eccellenti e lotte intestine.
Sarà nell’esperienza del governo giallorosso, infatti, che il profilo di Giuseppe Conte, con i pregi riconosciuti dagli alleati e le feroci critiche indirizzategli dagli avversari, emergerà a tutto tondo, qualificandolo non più come parvenu, bensì come nuovo protagonista della politica italiana. Sono i mesi, intensissimi, dell’esplosione del coronavirus e dell’assunzione di provvedimenti inediti nella storia repubblicana, come il primo lockdown del marzo del 2020, quando – sotto l’abile e riconosciuta regia di Rocco Casalino – Conte dà il via a una serie di conferenze stampa da Palazzo Chigi in diretta tv che gli attirano accuse di protagonismo dalle opposizioni (e non solo) ma ne fanno aumentare sensibilmente il tasso di popolarità presso gli italiani. E’ il momento di altre frasi che hanno contribuito a scandire la sua vicenda politica, come quel “stiamo lontani oggi per abbracciarci più forte domani”, pronunciata in diretta la sera dell’11 marzo del 2020 per annunciare il lockdown totale o del “devo fare i nomi” rivolto a Giorgia Meloni e a Salvini, ma è soprattutto il momento dell’utilizzo di uno strumento legislativo fino a quel momento destinato ad altri contesti: il Dpcm, del quale, col prolungarsi della pandemia, gli è stato contestato l’abuso. La parabola politica di Conte tocca il culmine della popolarità alla fine di luglio, quando il premier esce dalla trattativa sulla quota di Recovery da assegnare al nostro paese con la fetta più grande (più di 200 miliardi) e con la vittoria nel braccio di ferro coi paesi cosiddetti “frugali”, non disposti a fare concessioni all’Italia, ritenuta inaffidabile nella gestione dei fondi europei.
Da quel momento, però, le cose cominciano a ingarbugliarsi a livello politico: da un lato si fa sempre più aspra la polemica, all’interno di M5s, tra gli ortodossi fedeli alle origini anti-sistema del movimento e i sostenitori della svolta istituzionale raccolti attorno al premier, e dall’altro, all’interno della maggioranza, Matteo Renzi inizia a manifestare chiari segni di intolleranza nei confronti di Conte e della sua politica, polemizzando in particolare sulla politica estera e alcune scelte nella gestione dell’emergenza coronavirus, come ad esempio la nomina di Domenico Arcuri a Supercommissario. Le cose precipitano, e a nulla vale l’estremo tentativo del premier e del Pd di trovare una pattuglia di “responsabili” in Senato, capaci di coprire la probabile dipartita dei senatori di Italia Viva, i cui membri di governo Elena Bonetti, Teresa Bellanova e Ivan Scalfarotto si dimettono ufficialmente il 13 gennaio 2021. A Conte non resta che gettare la spugna e lasciare il posto al “governissimo” di Mario Draghi, ma la sua vicenda è tutt’altro che al capolinea: per lui inizia un’altra partita, quella della leadership del Movimento Cinque Stelle, alla quale sale praticamente per cooptazione, “investito” da Beppe Grillo in persona in un vertice alla fine di febbraio. Ma anche in questo caso, la strada è lungi dall’essere spianata, perché la battaglia a colpi di carte bollate tra l’Associazione Rousseau di Davide Casaleggio e il movimento rallenta la rifondazione di quest’ultimo e il passaggio di poteri. E quando tutto sembra risolto, esplode repentino il contrasto tra Conte e Grillo, che critica ferocemente le modifiche allo statuto proposte dall’ormai ex-premier, sentendosi esautorato dal suo ruolo di “padre nobile” del Movimento. Giocando proprio su questo, Conte mette a punto un altro dei suoi colpi a effetto con una conferenza stampa il 28 giugno al Tempio di Adriano, nella quale minaccia sostanzialmente di andarsene sbattendo la porta e arriva dove nessuno all’interno di M5s aveva mai osato arrivare, ponendo un aut-aut allo stesso Grillo, che deve “scegliere se essere un genitore generoso o un padre padrone”. Per la prima volta, dopo una catena di prese di posizione a favore di Conte da parte degli esponenti pentastellati più in vista, a partire dai ministri, il fondatore di M5s sembra non avere più il controllo della sua creatura, e torna a più miti consigli promuovendo una pace-lampo in quel di Marina di Bibbona a metà luglio. Il resto è cronaca delle ultime ore, col voto plebiscitario dei militanti pentastellati a favore del nuovo statuto su una piattaforma che non è più Rousseau, che ha fatto da preludio alla nomina ufficiale di Conte a presidente e all’inizio di una nuova carriera, decisamente non più da outsider.

Source: agi


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