Dalla Rai a Cdp, le nomine ai vertici delle partecipate non possono essere solo politiche. I manager della ripresa e il primo test di Draghi
Il Foglio Quotidiano del 27 febbraio 2021 di Stefano Cingolani
Oscar Sinigaglia era un ingegnere, un imprenditore privato, un ebreo romano colpito dalle leggi razziali nonostante fosse stato prima nazionalista e poi fascista, un visionario. Convertitosi durante la guerra, s’impegnò nella politica dei cattolici all’indomani della liberazione e in base all’esperienza maturata durante la crisi degli anni Trenta, alla guida dell’Ilva, venne nominato nel 1945 presidente della Finsider, di fatto una scatola vuota perché la siderurgia era stata colpita duramente dalla guerra. Nel marzo del 1946 si presentò di fronte alla Commissione economica dell’Assemblea costituente dove, avendo come unico alleato il presidente della Fiat, Vittorio Valletta, sostenne la tesi che vedeva l’avvenire industriale dell’Italia indissolubilmente legato alle produzioni di massa e non allo sviluppo diun“artigianatoorganizzato”auspicatoda Pasquale Gallo, commissario straordinario per l’Alfa Romeo. Spiega il suo profilo sulla enciclopedia Treccani: “La siderurgia non gli appariva in sé decisiva per l’economia del Paese, ma in quanto fornitrice, a condizioni competitive sul prezzo e sulla qualità, dell’industria meccanica, l’unico settore in grado di provocare una discontinuità nel percorso di crescita dell’industria italiana”. Sinigaglia lasciò due scritti “Alcune note sulla siderurgia italiana” e “Lavoratori e produzione” che varrebbe la pena rileggere mutatis mutandis per le analisi sull’organizzazione industriale, le interdipendenze settoriali, i mercati, l’occupazione. Anche oggi, del resto, si ripropone il dissidio tra “artigianato organizzato”, modello prevalente negli ultimi trent’anni, e grande impresa per lo più da rifondare.
Ricordare Sinigaglia non è pura nostalgia. Da più parti, a cominciare da Mario Draghi, è stata evocata la ricostruzione. E quella che abbiamo davanti una volta vinta la pandemia, per molti versi è una nuova ricostruzione. Come allora le scelte di fondo sono politiche, come allora abbiamo un piano di sostegno che è stato paragonato all’Erp (acromimo per European Recovery Program) del generale Marshall e come allora abbiamo bisogno di competenti visionari. Il governo, il Parlamento, insomma il corpo politico sceglie le strategie, ma a realizzarle ci sono i Sinigaglia, i Menichella, i Mattioli. In qualche modo Vittorio Colao nel digitale e Roberto Cingolani nella transizione ecologica possono diventare artefici della ripresa se sostenuti non solo dai partiti, ma da una schiera di manager, funzionari, grand commis, in grado di prendere in mano le leve e orientare la cosa pubblica. Anche per questo la nuova tornata di nomine al vertice delle imprese a partecipazione statale sarà una cartina di tornasole.
Sono ben 550 le poltrone dalle quali nessuno vorrebbe scendere e sulle quali tutti vorrebbero sedere. Dal prossimo mese scadono una quantità di presidenti, amministratori delegati, consiglieri di quel vasto mondo di aziende nelle quali il governo ha l’ultima parola anche perché per lo più è padrone, pardon, azionista di riferimento. Sono escluse alcune delle principali imprese i cui vertici sono stati rinnovati lo scorso anno (Enel, Eni, Poste, Leonardo, Terna, tanto per fare alcuni bei nomi), ma sono comprese molte delle loro controllate (solo all’Eni sono 70), senza contare pezzi da novanta come Ferrovie, Anas, Sogei, Invimit. Le scelte più importanti riguardano la Rai per le sue implicazioni politico-mediatiche e la Cassa depositi e prestiti per le sue connotazioni economico-politiche. Lì si parrà la nobilitate del governo (il sommo Dante ci perdoni).
Mario Draghi ha intenzione di procedere con prudenza e professionalità, due delle sue doti migliori (a parte tutte le altre); insieme a Daniele Franco, che come ministro dell’Economia detiene i titoli di proprietà, ha messo al lavoro i cacciatori di teste, garanzia di indipendenza ed efficienza (così si dice). In realtà anche Roberto Gualtieri, lo scorso anno, aveva fatto lo stesso. Ne aveva scelti addirittura quattro: Eric Salmon, Spencer Stuart, Russel Reynolds e Key to people, tra i più importanti e rinomati insieme a Egon Zehnder e Korn Ferry. Avevano raccolto, spulciato, filigranato curricula eccellenti, avevano contattato, intervistato, consultato i possibili candidati, e avevano inviato a palazzo Sella i loro rapporti. Tutto pulito, limpido come acqua di fonte, niente favoritismi, niente nepotismi, niente clientelismi, niente spoils system. Poi era cominciata la sarabanda. Prendiamo le notizie dalle cronache giornalistiche. Libero quotidiano, una voce di destra: “Un caso Gualtieri è esploso nel governo durante e dopo il vertice con Giuseppe Conte; infatti, i capi delegazione giallorossi e gli emissari dei leader di maggioranza hanno messo con le spalle al muro il responsabile dell’Economia. L’accusa è di voler decidere in solitaria la tornata di nomine di molte società controllate dal Tesoro”. Anche la Repubblica, una voce dal versante opposto, aveva scritto che volarono parole grosse a margine della riunione. Il primo scontro si era consumato in sordina. Il premier ipotizzava un nome e il ministro lo bocciava, poi toccava agli ambasciatori del Pd e del Movimento bussare alla porta del responsabile del Tesoro ottenendo però la stessa risposta. I cronisti riportarono che Conte a un certo punto era sbottato: “Non puoi fare da solo, ci sono equilibri di maggioranza da rispettare… come faccio se non accontento i grillini?”. Renzi aveva giocato in contropiede come suo solito, grazie al fatto che era stato lui sei anni prima, quando guidava Palazzo Chigi, a nominare gran parte dei manager pubblici che il compianto Giuseppe Turani aveva chiamato “boiardi di stato” nell’insuperato libro “Razza padrona” scritto con Eugenio Scalfari. Finì con conferme eccellenti soprattutto degli uomini che lo stesso Renzi aveva scelto: Claudio Descalzi all’Eni, Francesco Starace all’Enel, Matteo Del Fante alle Poste, Alessandro Profumo a Leonardo, mentre Stefano Donnarumma, che aveva guidato l’Acea, la municipalizzata che fa capo al comune di Roma, quindi alla sindaco Virginia Raggi, era passato a Terna senza bisogno di cacciatori di teste. Soddisfatto Gualtieri che si definì “vincitore morale”. Non è chiaro se con lui vinsero anche gli headhunter. Possibile che anche loro abbiano reso onore al merito conquistato sul posto, tuttavia i cacciatori di teste non erano serviti nemmeno per nominare Marcello Foa presidente della Rai in quota An e Fabrizio Salini amministratore delegato in quota cinque stelle. Avranno un ruolo per il prossimo consiglio di amministrazione che scade a giugno?
La società svizzera fondata da Egon Zehnder nel 1964 è la maggiore in Europa. Non trova solo lavoro, ma consiglia, analizza, suggerisce. Francesco Buquicchio, alla guida della filiale italiana, in una intervista rilasciata alla Repubblica ha acceso una luce sul modello nostrano. Seguiamo il suo ragionamento. L’Italia ha manager di alta classe, molti di loro sono all’estero, “cervelli in fuga” anche se alcuni rientrano (Colao per esempio), perché c’è una difficoltà a valorizzare i talenti. “In Italia si fa spesso riferimento solamente a due dei tre requisiti più importanti, cioè all’esperienza pregressa e alle competenze. Raramente si guarda anche alle altre attitudini: curiosità intellettuale; capacità di visione in un mondo sempre più complesso e veloce; determinazione, ovvero la volontà ferrea di portare avanti la propria visione. Un altro elemento chiave è l’engagement, cioè l’empatia, la capacità di connettersi con gli altri interlocutori sia in azienda sia all’esterno”. In questa “attitudine”s’annidalaforzadelnetworking,delpotere relazionale che vale per le imprese private, ma ancor più per quelle di stato dove la rete diventa inevitabilmente politica. Le memorie di un cacciatore (di teste ovviamente) non possono trascurare un aspetto che non è solo italiano (le nomine in aziende pubbliche sono politiche anche in Francia, in Germania o negli Stati Uniti), ma che qui è da molto tempo prevalente. Il governo Draghi segnerà una svolta? Si tornerà allo spirito della ricostruzione quando vennero recuperati anche i grandi tecnocrati formatosi durante il fascismo in base alla loro competenza e non solo alla loro affiliazione politica? Per capirlo bisogna passare dai nomi alle cose, in altri termini bisogna prima capire che cosa si vuol fare poi decidere chi lo potrà (e dovrà) fare. Ciò vale in particolare per la Rai e per la Cdp, due test entrambi cruciali.
Nel novembre scorso, di fronte alla commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, Gualtieri aveva parlato di tre criteri di fondo: “Un indirizzo parlamentare chiaro ed utile, organi sociali di alto profilo e infine un nuovo management individuato tra persone del più alto livello”. Individuato da chi? Dal governo, dalla maggioranza parlamentare, da tutti i partiti secondo il manuale Cencelli che anche i cacciatori di teste conoscono bene? La Rai è definita un servizio pubblico pagato con il canone diventato obbligatorio tanto che sta nelle bollette elettriche. Questo modello italiano non la rende né indipendente né equanime e nemmeno efficiente secondo una logica puramente aziendale, in un mercato dell’informazione e dell’intrattenimento sempre più affollato e competitivo. Ripensare la Rai, anche la sua collocazione istituzionale, sottraendola alla divisione delle spoglie sarebbe davvero una grande riforma, un programma forse troppo vasto per il governo Draghi. Ma non è affatto impossibile lanciare un segnale di discontinuità cominciando proprio dalle nomine, con scelte basate su una diversa impostazione strategica.
E’ vero, e forse ancora di più, per la Cdp. Paolo Bricco, giornalista del Sole 24 Ore, nel suo libro “Cassa depositi e prestiti, Storia di un capitale dinamico e paziente”, edito dal Mulino, ripercorre 170 anni dalla sua fondazione nel Regno di Sardegna e racconta come abbia accompagnato le diverse fasi dell’Italia unità, cambiando di volta in volta in funzione delle priorità strategiche del paese: finanziare le strade, i comuni, le ferrovie, l’acciaio di stato, il debito pubblico. Fino all’attuale modello “ibrido” che assieme alle funzioni tradizionali accompagna la partecipazione azionaria (talvolta prevalente) in importanti società: Eni, Snam, Italgas, Terna, Poste, Saipem, Fincantieri, Webuild,
Trevi, Bonifiche ferraresi, Euronext, Nexi, Open Fiber, Tim. Un ventaglio che va dalle costruzioni all’energia, dalla logistica alle telecomunicazioni, dalla borsa ai sistemi di pagamento. Bricco scrive che “l’intera vicenda della Cassa è determinata dall’oscillazione continua tra l’autonomia e la dipendenza, tra la moltiplicazione e la riduzione dei compiti funzionali, da una maggiore o minore dialettica attiva o passiva con il resto dell’amministrazione pubblica e da un’interlocuzione più o meno automatica e più o meno autorevole con la politica”. Un pendolo, dunque. In quale direzione oscilla oggi e dove nel prossimo futuro? Questa è la domanda alla quale rispondere prima di scegliere chi la guiderà, se confermare Fabrizio Palermo che l’ha gestita negli ultimi tre anni dopo essere stato il direttore finanziario, o sostituirlo e con chi.
La nuova ricostruzione dell’Italia richiede che la Cdp sia un soggetto attivo del cambiamento. Come? Tutelando i campioni nazionali esistenti contro gli stranieri (la linea nazional-populista degli scorsi anni)? Costruendo nuovi campioni nazionali (come nel caso di Webuild)? Modernizzando i servizi (si pensi al turismo che va non solo rilanciato, ma ripensato)? Superando il nanismo della manifattura, il che vuol dire concentrare le risorse finanziarie e progettuali nel riconvertire l’industria? Scegliere è cruciale.
Non sappiamo che cosa ne pensa Draghi né il ministro dell’Economia Daniele Franco, grande esperto e conoscitore della finanza pubblica, ma che non ha alle sue spalle esperienze imprenditoriali. Il fondo per la ripresa è l’occasione per battere strade nuove e operare in modo diverso dal passato. Bricco cita più volte Luigi Einaudi che aveva sempre sostenuto il ruolo della Cdp anche se ne aveva criticato più volte le scelte. Quando nel 1921 venne spinta a pagare gli stipendi al comune di Milano l’autorevole economista scrisse sul Corriere della Sera: “C’è un limite a tutto, la Cassa non ha a sua disposizione nessun fondo misterioso e inesauribile”. E aggiunse: “Che cosa accadrebbe se i depositanti delle casse postali di risparmio immaginassero che i loro depositi sono mutuati a comuni, di color rosso o giallo o bianco, dietro pressioni politiche e minacce di scioperi? Il solo accenno alla possibilità di uno sciopero proletario per premere sulla Cassa Depositi e Prestiti apre orizzonti inesplorati sulla catastrofe finanziaria che sarebbe la conseguenza della applicazione di criteri politici nel maneggio dei fondi di questa banca di Stato”. Un monito che va tenuto presente anche ora che la Cdp non è “la più grande banca della piccola gente” (definizione anch’essa einaudiana), semmai può diventare la più grande banca per la grande trasformazione. “Maneggiare con cura”, dunque. Ma forse non basterà la cautela, ci vorrà il modello Sinigaglia.