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COSA DEVE TEMERE L’EUROPA

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Di Walter Veltroni

Èassai probabile che la Corte Suprema degli Stati Uniti boccerà la decisione del Colorado di impedire la partecipazione di Donald Trump alla primarie repubblicane in virtù dell’applicazione della sezione 3 dell’articolo 14 della Costituzione americana che stabilisce che non possa essere eletto in nessun pubblico ufficio chiunque, avendo prestato giuramento «di difendere la Costituzione degli Stati Uniti, abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione contro di essi o abbia dato aiuto o sostegno ai loro nemici».
Se la Corte Suprema Federale, vista la composizione decisa da Trump, cancellerà la decisione del Colorado, questa sentenza avrà poi valore nazionale.
Trump ha reagito da par suo. Sentirsi vittima di un complotto ordito dall’establishment attizza la sua naturale propensione alla radicalizzazione, al limite e oltre le regole della convivenza democratica. Dopo aver definito Biden un «corrotto», ha usato il tono da sfida di wrestling che segna l’impostazione della sua nuova campagna: «È la nostra battaglia finale, con voi al mio fianco». E poi un inquietante «Finiremo il lavoro una volta per tutte». Il suo nuovo nemico infatti non è solo il partito democratico, ogni forma di pensiero liberal, ma quello che chiama il «deep state», che lo avrebbe boicottato durante i suoi anni alla Casa Bianca e che lui non avrebbe tosato abbastanza.
Tutto, nel linguaggio del Tycoon, sembra far immaginare, se verrà candidato ed eletto, un redde rationem che provocherà scosse profonde all’interno della democrazia americana e negli equilibri del mondo. Sul rischio di elezioni con una giustizia politicizzata ha scritto cose giuste Federico Rampini. «Stanno avvelenando il sangue del nostro Paese», ha per esempio detto Donald Trump, rievocando pericolosi precedenti a proposito del concetto di purezza etnica. Si è riferito agli immigrati che affluiscono negli Usa, seguendo la naturale rotta dalle terre di povertà e di guerra a quelle di pace e di opportunità. La stessa, proprio la stessa rotta, che fecero quattro milioni di italiani, da qui a lì, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Quattro milioni, solo gli italiani.
Con il nostro, non è stato avvelenato il sangue di nessuno; quel Paese è cresciuto anche grazie al lavoro e al cervello di tanti di noi italiani che pure problemi ne abbiamo portati. Al Capone e Lucky Luciano non erano, infatti, nativi americani. Di questo grande processo John Kennedy disse: «Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville».
Ora Trump, nella sua disperata gara contro i tempi della giustizia e il naturale logoramento di leadership survoltate, supera invece i confini del linguaggio, abbatte un’altra barriera e parla di sangue avvelenato. Aggiungendo la solenne promessa di «fermare l’invasione del nostro confine meridionale e iniziare la più grande operazione di deportazione interna della storia americana». «Sangue avvelenato dagli immigrati» e «Deportazione di massa».
Il vice portavoce della Casa Bianca ha detto, a proposito delle parole di Trump, di «retorica fascista» ed ha aggiunto: «Sono attacchi pericolosi alla dignità e ai diritti di tutti gli americani, alla nostra democrazia e alla sicurezza pubblica». In più occasioni Biden ha usato parole inusuali per la apparentemente inossidabile tradizione di libertà americana, parlando di «pericoli per la democrazia». E d’altra parte la giornata del 6 gennaio del 2021, con l’assalto al Campidoglio istigato dal presidente uscente, rimarrà come una ferita indelebile nella storia americana.
Ma si sbaglierebbe a ironizzare o sottovalutare l’effetto di queste parole. Siamo in un tempo in cui tutto appare possibile. Le parole servono ad abbattere i muri. E se quelle forse involontarie di un funzionario della Ddr, nel novembre ’89, provocarono la caduta di quello di Berlino, oggi l’uso di un frasario che rimanda ai momenti più bui del Novecento serve a svellere paletti morali, a dire che i valori sono tutti e solo chincaglierie del passato. La libertà, la democrazia diventano così un puro mezzo, non un fine. Anche per scardinare la democrazia e ridurre la libertà, magari proprio usando le parole che il pluralismo consente.
Amos Oz, nella sua lettera ai fanatici, ha scritto che forse ci stiamo allontanando troppo velocemente dal Novecento: «Per qualche ventennio, grazie al calibro degli assassini che il Ventesimo secolo aveva conosciuto, i razzisti si sono un po’ vergognati del loro razzismo, l’odio è stato un poco tenuto a freno e i redentori fanatici ci sono andati piano con le loro rivoluzioni.. In questi ultimi anni evidentemente questo “regalo” di Stalin, Hitler, dei militaristi giapponesi è giunto a scadenza. Il parziale vaccino che avevamo assorbito non fa più effetto. Odio, fanatismo, ribrezzo per il diverso, sete di sangue rivoluzionaria, febbre di “annientare una volta per tutte i malvagi in un bagno di sangue”: tutto ciò sta di nuovo alzando la testa».
E si aggiunga il proposito di Trump — al quale la politica americana sta cercando di apporre un freno preventivo — di una uscita degli Usa dalla Nato, in paradossale incarnazione, da destra, di uno slogan sessantottesco. Scelta che ovviamente farebbe felice Putin al quale si lascerebbe mano libera per continuare politiche espansive e normalizzatrici.
Credo che l’Europa più di ogni altro si dovrebbe preoccupare del possibile prevalere di un isolazionismo aggressivo degli Usa, magari accelerando, senza farsi condizionare da veti, il processo di unificazione politico-istituzionale. Sta succedendo, con l’affermazione di populismi e isolazionismi, esattamente il contrario di quello che la ragione, non altro, vorrebbe: che a problemi globali si diano risposte globali. Pandemie, crisi ambientali, guerre, recessione: quale di queste grandi contraddizioni del nostro tempo è affrontabile su base nazionale o nazionalistica?
Non bisogna sottovalutare le parole di Trump, come non si dovevano sottovalutare quelle di chi, in Argentina o in Ungheria, le ha usate con successo. La società digitale tende a favorire la semplificazione della realtà e la radicalizzazione estrema delle posizioni. Chi ama la democrazia, quale che sia il suo orientamento politico, dovrebbe sforzarsi di trovare le parole giuste non per snobbare con aristocratico distacco ma per rispondere in modo opposto a un diffuso senso di ansia e di paura, sentimenti sui quali, nella storia dell’umanità, si sono lastricati inferni e generate guerre. È su questo ring che oggi si gioca la partita, non su quello con le corde rassicuranti del passato.
Ero ad Atlanta, il giorno del 2008 in cui Barack Obama ricevette la nomination. Tornai in albergo e vidi in tv uno spot del suo avversario repubblicano, John McCain, pure uomo convintamente di destra, che gli augurava buon lavoro. Lo stesso McCain un giorno, durante un incontro elettorale, strappò il microfono a una sua sostenitrice quando questa si scagliava contro Obama, attaccando la persona. Il candidato repubblicano rispose: «No, signora, è un padre di famiglia e cittadino rispettabile, con il quale mi trovo a essere in disaccordo su questioni fondamentali, ed è questo il punto centrale della campagna elettorale». Erano solo quindici anni fa. Sembra un secolo.

Fonte: Corriere