Il controllo di costituzionalità delle leggi, di competenza della Corte costituzionale, e la verifica della compatibilità della normativa interna con il diritto Ue, affidato ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia dell’Ue, non sono in contrapposizione tra di loro, ma costituiscono un “concorso di rimedi giurisdizionali volti alla tutela dei diritti fondamentali”. Lo ha ribadito la Corte costituzionale con la sentenza, depositata ieri, con la quale sono stati decisi un conflitto di attribuzione promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e una questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Udine: i giudizi nascevano da due diverse controversie in materia di discriminazione, promosse ai sensi dell’articolo 28 del decreto legislativo 150/2011 presso il tribunale di Udine. I casi riguardavano comportamenti della Pubblica amministrazione che aveva richiesto, a cittadini extra Ue titolari di permessi di lungo soggiorno che avevano fatto domanda per accedere ad agevolazioni in materia di diritto all’abitazione, di dimostrare il non possesso di immobili nel Paese di origine e nel Paese di provenienza con modalità diverse da quelle consentite ai cittadini Ue.
Il tribunale di Udine aveva ritenuto di non applicare la normativa regionale, “perché in contrasto con l’articolo 11 della direttiva 2003/109/CE”, e aveva quindi consentito ai ricorrenti di utilizzare una autocertificazione, analogamente a quanto consentito ai cittadini Ue. Al fine, poi, di rimuovere la discriminazione anche per il futuro, in uno dei due giudizi il tribunale aveva ordinato alla Regione di modificare il regolamento contestato: proprio questa decisione è stata oggetto del conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, secondo la quale il giudice non poteva ordinarle di rimuovere un regolamento conforme alla legge regionale. Nell’altro giudizio, il tribunale di Udine aveva, invece, sollevato questione di legittimità costituzionale della legge regionale di cui le disposizioni regolamentari, fonte del comportamento discriminatorio dell’amministrazione, erano attuative.
La Corte costituzionale – dopo aver riconosciuto che, “nel giudizio antidiscriminatorio, il giudice ordinario ben può ordinare la modifica di un regolamento al fine di evitare in futuro il ripetersi della discriminazione” – ha affermato, tuttavia, che, “quando detta discriminazione trovi origine diretta nella legge, il giudice è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della stessa, per evitare che l’amministrazione sia costretta ad adottare atti regolamentari confliggenti con la legge non rimossa”: ciò – spiega Palazzo della Consulta – vale anche qualora, come nel caso in esame, la normativa nazionale sia ritenuta in contrasto con il diritto Ue.
La Corte costituzionale, infatti, ha rilevato che “nel giudizio antidiscriminatorio l’efficacia diretta del diritto Ue è garantita quando, accertato che la condotta contestata trova fondamento in atti normativi incompatibili con la normativa dell’Ue, il giudice dà immediata applicazione a quest’ultima e ordina la cessazione della discriminazione”. Se, invece, egli intenda ordinare la modifica di norme regolamentari discriminatorie, viene in gioco, afferma la Corte, “una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione”, attraverso l’eliminazione della normativa incostituzionale.
Le peculiari caratteristiche del giudizio antidiscriminatorio dimostrano, conclude Palazzo della Consulta, che la verifica della compatibilità della normativa interna con il diritto Ue, affidato ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia dell’Ue, e il controllo accentrato di legittimità costituzionale delle leggi, posto “a fondamento dell’architettura costituzionale” di competenza della Corte costituzionale, danno luogo a “un concorso di rimedi giurisdizionali”, tutti egualmente volti, con le proprie particolarità, ad apprestare tutela ai diritti fondamentali. (AGI)