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In quale misura i Comuni sono legittimati a richiedere il pagamento della Tari? E quali criteri utilizzano per la determinazione delle tariffe da applicare al tributo in esame? Questi sono interrogativi che molto spesso affliggono i possessori di immobili, soprattutto se questi sono destinati ad usi commerciali o produttivi.

 Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una autentica proliferazione, sia qualitativa che quantitativa, dei tributi gravanti sul comparto immobiliare, particolarmente quello a vocazione non residenziale, con il risultato, in aggiunta alla depauperazione di valore del più classico e diffuso investimento nostrano, di un congelamento dell’intero mercato immobiliare. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e si traduce in serrande abbassate e delocalizzazione della produzione. La Tari si inserisce a pieno titolo in questo trend.

L’avv.to Michela Russo, responsabile nazionale ufficio legale di Confedercontribuenti, ci spiega: “la Tari, tassa rifiuti, è stata introdotta dal legislatore con la L. 147/ 2013 (c.d. Legge di Stabilità 2014) al fine di riunire in un’unica tassa le precedenti imposte sui rifiuti e l’ambiente (TIA, TARSU e TARES) e, pertanto formare, insieme all’IMU (Imposta Municipale) ed alla TASI (Tassa per i Servizi Indivisibili), la IUC ossia l’Imposta Comunale Unica. Presupposto costitutivo della TARI è il principio del cosiddetto “chi inquina paga” dettato dalla direttiva comunitaria n. 2004/35/CE e ripreso dal legislatore italiano all’art. 1 comma 641 della Legge di stabilità 2014, dove ha stabilito che la conditio sine qua non per la costituzione della TARI è il possesso  o  la  detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Va da sé che,qualora si sia proprietari o detentori di aree o locali non produttive di rifiuti o allorché quest’ultimi vengano smaltiti con modalità alternative, la TARI non sarebbe dovuta all’amministrazione comunale richiedente. Il principio europeistico del ‘chi inquina paga’ deve essere inderogabilmente osservato dal legislatore locale nel momento della determinazione della tariffa, come espressamente stabilito dall’art.1 comma 652 della Legge di Stabilità 2014; il Comune, infatti, ha il dovere di stabilire, motivare ed aggiornare annualmente la tariffa da applicare alla Tari in relazione alla quantità ed alla qualità dei rifiuti prodotti dall’immobile valutato. Non solo, altrettanto pregnante è il portato dell’art. 53 della nostra Costituzione, ispirato al principio del raggiungimento del massimo grado di utile per la collettività con il minor sacrificio per ognuno dei suoi componenti, verso il quale dovrebbe tendere, e certamente mai prescindere, tutta la politica fiscale del nostro paese. Spesso i Comuni, nello stabilire le tariffe, non rispettano appieno tali vincolanti principi: nelle delibere relative alla determinazione del tributo il più delle volte non è esplicitata la motivazione circa la decisione di una determinata tariffa, né si comprende con quali modalità il Comune stabilisca le categorie e le sottoponga alle relative tariffe”.

Come difendersi, allora?

“Per le annualità anteriori al 2018 – spiega l’avv.to Michela Russo – il contribuente può impugnare, innanzi alla Commissione Tributaria Competente, gli avvisi di accertamento del tributo: il ricorso deve essere presentato entro e non oltre sessanta giorni dal ricevimento dell’avviso di accertamento TARI. Per il 2018, invece, la Confedercontribuenti Piemonte sta predisponendo dei ricorsi collettivi  ai TAR territorialmente competenti per impugnare le delibere di determinazione delle tariffe”.

Per informazioni contattare Confedercontribuenti.

 


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