Neppure le fatture ai clienti in una contabilità regolarmente tenuta sono sufficienti a far cadere la presunzione di maggior fatturato basata sugli studi di settore. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 24448 del 30 ottobre 2013, ha sancito, infatti, che una contabilità regolare non basta a sconfiggere la presunzione di maggior fatturato: il contribuente deve provare altre peculiarità come l’età, la salute o la crisi dell’attività. La vicenda riguarda una commerciante che lamentava l’applicazione di uno studio di settore non ancora approvato, per la vendita della carne all’ingrosso, mentre lei faceva vendita al dettaglio come dimostrato dalle fatture. Il volume d’affari era, inoltre, inferiore come dimostrava la contabilità. Due circostanze, queste, assolutamente insufficienti per il Collegio di legittimità che ha confermato l’accertamento induttivo e quindi il verdetto della Ctr. Sul punto i supremi giudici concordano sull’inidoneità dei documenti offerti dalla donna, comprese le fatture, prodotte nel corso del giudizio di appello, che si sostiene recassero il numero di partita Iva degli acquirenti, a provare che l’attività svolta fosse di commercio all’ingrosso, per la quale non era ancora stato approvato lo studio. In altri termini, «non basta produrre delle fatture, ma bisogna anche che esse dimostrino la realtà economica affermata dal contribuente (nel caso specifico il commercio all’ingrosso di carni), e ciò non è avvenuto». Piazza Cavour ricorda, inoltre, che il contribuente, in sede di contraddittorio, ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento.