Carlo Cottarelli, commissario alla spending review, ne ha contate circa 10 mila, la Corte dei Conti più o meno 7.500: numeri enormi, ma distanti, tanto da dare l’effettiva percezione della complessità e della poca trasparenza del mondo delle società partecipate. Un settore in gran parte inesplorato e che costa, solo allo Stato, decine di miliardi ogni anno, 26 per l’esattezza.
Proprio tramite il lavoro del commissario alla spending review, il governo punta a mettere ordine nella jungla delle partecipate: il piano di razionalizzazione di Cottarelli dovrebbe arrivare entro luglio, ma intanto i magistrati contabili hanno già fatto i loro calcoli, sollecitando ulteriormente un rapido intervento dell’esecutivo.
Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati – ha sottolineato il procuratore generale Salvatore Nottola nel suo giudizio sul rendiconto generale dello Stato – «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari». Il movimento finanziario indotto dalle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti erogati dai Ministeri nei loro confronti, è ammontato a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013. Il «peso» delle società strumentali sul bilancio dei Ministeri è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 574,91 milioni nel 2013.
Sono numeri che vanno calando e dimostrano come lo Stato sia già in qualche modo intervenuto a razionalizzare il fenomeno. Tuttavia, gli esiti di tale sforzo sono stati solo «in parte positivi». Basti pensare che un terzo degli oltre 5mila enti partecipati dagli enti locali (50 sono quelli dallo Stato e 2.200 enti vari come consorzi e fondazioni) presenta ancora conti in rosso. Un mondo così variegato e ricco di implicazioni richiederebbe «una assoluta trasparenza del fenomeno ma la realtà è diversa», ha insistito il procuratore. L’assetto delle società è infatti soggetto a vicende «complesse», con aspetti contabili che sono «spesso oscuri». Inoltre, specialmente nelle società «in house», la carenza di controlli favorisce episodi di cattiva gestione, «non di rado di illeciti anche penali». Da qui la richiesta di porre mano «ad un disegno di ristrutturazione organico e complessivo, che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti e dia a questi ultimi la responsabilità dell’effettivo governo degli enti partecipati».